Cosa ci dicono le missive inviate nei giorni scorsi dalla Commissione ad alcuni Paesi dell’Unione, tra cui l’Italia, e le ultime scelte di Draghi in tema di politica monetaria? Che l’Europa, per quanto si voglia minimizzare sull’argomento, è sempre più in preda ad una sindrome bipolare. Da un lato si richiamano gli Stati membri, a cominciare dai più reprobi, ai propri doveri verso il Fiscal Compact, lo strumento approntato all’indomani della crisi innescata dalla bolla immobiliare americana per rendere più rigidi e cogenti i vincoli di finanza pubblica, dall’altro si amplia il volume di acquisti del Quantitative easing, portandolo da 60 ad 80 miliardi mensili. In altri termini, si chiede ai partner europei di stringere ancora di più la cinghia, per centrare gli obiettivi della riduzione del debito e del conseguimento del pareggio di bilancio in termini strutturali, mentre si continua ad incanalare nel sistema bancario una massa abnorme di denaro, acquistando titoli di Stato ed altri asset finanziari, rifinanziando gli istituti di credito ad un tasso addirittura negativo, col rischio, tra l’altro, che si alimenti una nuova e più pericolosa bolla speculativa sui mercati finanziari. C’è sintonia tra queste due opzioni? Evidentemente no. D’altronde la spesa la fanno i cittadini, non le banche.

In pillole, le nuove mosse della Bce possono essere così riassunte: taglio del costo del denaro dallo 0,05% allo 0%; altro taglio del tasso di interesse sui depositi (le banche pagheranno di più per tenere i propri soldi presso la Bce); rafforzamento del Quantitative easing, con l’aggiunta al paniere di altri asset finanziari; lancio, a giugno, di un pacchetto di quattro prestiti Tltro alle banche, a tasso negativo. Tasso negativo? Sì, proprio così: la Bce non riceverà indietro il denaro prestato alle banche con gli interessi, ma pagherà essa stessa un interesse prestando i soldi alle banche. La logica, rispetto ad un anno fa, rimane, sostanzialmente, la stessa. Cambia soltanto che le banche avranno ancora più denaro, tanta liquidità aggiuntiva, che, c’è da giurarci, rimarrà per gran parte “intrappolata” nella sfera separata dell’economia di carta.

Stiamo parlando, infatti, di una gigantesca movimentazione di denaro (creato dal nulla), ma ad un livello distante anni luce dalla materialità della vita dei cittadini europei. Quella materialità della vita che, invece, rimane pesantemente condizionata dalle ristrettezze imposte ai bilanci pubblici dal Patto di Stabilità. Trilioni di euro che scorrono nelle vene del sistema bancario e dei mercati finanziari (compresi quelli ombra), mentre i governi nazionali sono costretti a fare i conti della serva, subordinando il lavoro, la salute, la felicità dei propri cittadini a qualche decimale di deficit. Nella lettera inviata a Pier Carlo Padoan, Jyrki Katainen, il vicepresidente della Commissione Europea, ha scritto: «Vorrei sapere come l’Italia potrebbe assicurare il pieno rispetto dei suoi obblighi di bilancio relativamente al Patto di stabilità per il 2015». Il timore di Bruxelles è che il nostro Paese potrebbe chiudere il 2016 con un deficit (in percentuale al Pil) pari al 2,5%, più ampio di uno 0,3% rispetto a quanto previsto nell’ultima nota di aggiornamento al Def. In questo modo si allontanerebbe l’obiettivo dell’equilibro strutturale di bilancio, fissato per il 2018.

Con il ritorno della deflazione ed una crescita nel primo trimestre di quest’anno stimata allo 0,1%, insomma, il severo commissario finlandese, per conto della Commissione, anziché preoccuparsi dei rischi, economici e sociali, della bassa domanda e della sostanziale stagnazione dell’economia, si appella al nostro governo perché trovi da qualche parte 3-4 miliardi di euro per correggere di tre decimali l’andamento tendenziale del disavanzo pubblico, peraltro già al di sotto del cabalistico 3% stabilito a Maastricht. «L’austerità va praticata nelle fasi di espansione, non in quelle di crisi», ammoniva Keynes qualche decennio fa. E la storia, finora, non ha mai smentito questa regola elementare. Solo in Europa proprio non vogliono prenderne atto. Lo stesso Draghi, quando afferma che «i governi devono fare la loro parte», non si riferisce ad un ruolo attivo e diretto degli Stati nel sostegno alla domanda mediante politiche fiscali espansive, in deroga al patto di stabilità, ma alla «necessità» che essi portino avanti con più decisione le cosiddette «riforme strutturali», ovvero politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro e di riduzione delle coperture del welfare, privatizzazioni, consolidamento dei conti pubblici.

Tornando in Italia, viene da chiedersi: e la flessibilità invocata da Renzi? E’ rimasta come petizione nel «position paper» presentato giorni addietro a Bruxelles. Addirittura, si vocifera che il governo, per evitare una manovra aggiuntiva, sarebbe disposto anche a rinunciare al «bonus» migranti, la flessibilità che l’Ue riconoscerebbe ai Paesi maggiormente esposti nella gestione dell’emergenza profughi. Insomma, parole tante, fatti a zero.