Se fermiamo la riflessione sul voto alle prime e immediate impressioni, è fuori di dubbio che per chi si riconosce nell’area progressista e democratica, il voto regionale ha portato un buon risultato. Soprattutto perché imprevisto o per lo meno per nulla scontato.

C’era il timore concreto e diffuso che i candidati della Toscana e della Puglia non avessero la forza per vincere la partita nel confronto con il centrodestra che si presentava compatto e unito in tutte le Regioni, diversamente dal centrosinistra e dalle forze di governo che, Liguria a parte, marciavano in ordine sparso.

Il 3 a 3 è giunto dunque inaspettato consegnando tre messaggi sul piano strettamente politico:

  1. il consolidamento del rapporto a livello di governo, con un leader rafforzato, Giuseppe Conte;
  2. l’assestamento della leadership di Zingaretti che, dato per spacciato alla vigilia del voto, ha adesso puntellato la sua segreteria per i prossimi anni;
  3. un probabile rimescolamento delle carte tra i 5Stelle, con il reggente Crimi seduto sulla propria inconsistenza.

L’alleanza tra Pd e grillini andrà avanti a livello nazionale e forse troverà nuove strade di incontro con le prossime elezioni nelle grandi città, una sfida già iniziata, un appuntamento di grande rilievo nazionale.

Naturalmente i Di Battista, azzoppati per aver messo mille ostacoli ad un accordo con il Pd, e in particolare con Emiliano in Puglia, tenteranno in qualche modo di far saltare il tavolo.

Cosa poco probabile, la riduzione del numero dei parlamentari porterà quelli attuali a tenersi stretto il posto, finché dura.

Ma politicismi e calcoli a parte, a sinistra bisognerebbe capire di che vittoria stiamo parlando.

Perché due dei vincitori, De Luca ed Emiliano, giocano una partita politica in proprio, molto personale e personalistica, con le radici ben piantate nel populismo, alimentato da un consenso a maglie larghe.

Diversa la figura di Giani in Toscana, dato per morto in partenza e invece uscito stravincitore dalla battaglia elettorale.

L’unico candidato unitario Pd-M5S era in Liguria e ha perso male. In questo caso rispettando in pieno le previsioni della vigilia. L’elettorato 5S ha mal digerito un grillino critico come Sansa (che coraggiosamente ha dichiarato di votare No al referendum). Ed è stato inutile l’invito, stentato, di Grillo a sostenerlo.

L’unità su candidati comuni è da perseguire ma non vuol dire sceglierli alla vigilia del voto.

NEL QUADRO GENERALE, curiosamente la débacle nelle Marche è come messa tra parentesi mentre richiede qualche risposta: come è possibile che una Regione guidata dai partiti democratici per 25 anni, cambi cavallo, saltando su uno di stampo fascistoide? A che punto è arrivata la delusione dei marchigiani per sfociare in un cambiamento tanto radicale? Quali errori, e gravi, amministrativi sono stati compiuti negli ultimi anni?

E qui arriviamo al dunque, a una questione che riguarda la sinistra, le organizzazioni a sinistra del Partito democratico.

Perché se LiberieUguali e Sinistra italiana hanno un significativo, non marginale ruolo all’interno del governo, la presenza sui territori lascia sconcertati. Ma è una verifica da fare se si vuole mantenere viva un’area politica che, in teoria, potrebbe non essere marginale e invece, allo stato attuale delle cose, lo è.

Al punto che chiedere uno sbarramento al di sotto del 5 per cento in previsione di una nuova legge elettorale potrebbe essere del tutto inutile.

Ammesso e concesso che Zingaretti è il più felice di turno, sull’altro fronte, nel centrodestra, c’è uno sconfitto eccellente, Salvini, con la sua candidata toscana di una inconsistenza imbarazzante, tallonato, dentro la Lega, dallo strabordante successo di Zaia, e fuori dalla leader di Fratelli d’Italia, che ha malamente dissimulato la delusione per il suo Fitto, candidato uscito con le ossa rotte dalla sfida pugliese.

NULLA DI GRAVE in confronto all’atmosfera che si respira in un angolo del retropalco dove risiede il partito del Cavaliere, ridotto a pura testimonianza, nonostante la vittoria di Toti.

Nel complesso quello che si temeva non è avvenuto: il centro destra non solo non ha sfondato – come qualche inaffidabile sondaggio ha sostenuto – ma ha perso consensi. La marcia trionfale dei fascio leghisti è rinviata a data da destinarsi.

Sicuramente più semplice da interpretare, il risultato del referendum offre una buona uscita alle due opzioni.

Il No riceve un inaspettato 30 per cento, il Sì un 70 per cento che fa esultare il M5S, tenendo viva la loro «ragione sociale» di fondo, la battaglia contro la casta e i suoi privilegi. Si accontentano di poco visto lo sprofondo che hanno accolto le loro liste regionali, precipitandoli a percentuali da forza medio-piccola.

Contenti loro, il governo viaggerà più sereno.

Ma ora, chiuso il capitolo election day, c’è poco da esultare. Perché la crisi nella quale è sprofondata l’Italia (come gran parte del Mondo), a causa della pandemia, è dura, violenta, lunga, con l’incubo di un altro «blocco».

Non ci sono più scuse per nessuno.