Vent’anni fa un pezzo di mondo è venuto giù irreparabilmente, sgretolandosi fra i grattacieli e fra le immagini di chi sceglieva o di dover morire bruciato o di farla finita in pochi secondi, precipitando da una finestra. Shakira H. aveva solo 5 anni e per lei il terrorismo non voleva dir nulla, era uno di quei tanti termini privi di contenuto usati dai grandi; anzi, per meglio dire, neanche si parlava, in casa, di quello che stava accadendo a New York, né si parlava, nei giorni successivi, di quel Paese sventrato nelle sue sicurezze domestiche, mentre il presidente Bush, per circa quattro ore, di quel giorno 11, sorvolava i cieli, senza poter atterrare, con l’America che si chiedeva «…ma dov’è finito il presidente?».

OGGI SHAKIRA è un’avvocata, con un discreto successo professionale, ma di certo è fra le laureate in legge più giovani dell’Afghanistan, con notevole e meritevole anticipo. Ha conseguito il titolo a Kabul, mentre gli americani erano lì, in parte accettati, in parte no. Vent’anni dopo quell’11 settembre, da avvocata specializzata in diritto internazionale, volontaria fra le femministe transazionali per i diritti delle donne afghane, residente ancora a Kabul è sempre a metà fra l’esposizione e la fuga. Afferma: «Vent’anni dopo, Kabul ritrova il terrore che conosceva; precipita così come precipitava nel terrore negli anni ’70, esattamente com’è poi precipitata, insieme alle torri di New York, quel giorno di settembre, quando il suo difficile destino è stato accomunato, nell’immaginario di gran parte dell’Occidente, ai seguaci di quel Bin Laden, che era lontano anni luce dalle nostre vite. Quante bugie sulla nostra identità di uomini e donne islamiche, quante manomissioni, quante inutili violenze militari su un popolo, che aveva già conosciuto violenza, miseria e terrore dei talebani, da anni. Eravamo diventati, dopo quel giorno undici, per l’ennesima volta, teatro di guerra e la mia generazione avrebbe visto violenze inaudite. Non ha senso oggi dire che l’Afghanistan è stata una grande sconfitta soprattutto diplomatica. Non ha senso dirlo, perché la Storia non ha l’abitudine di procedere per giudizi, ma, al massimo, va avanti sull’analisi dei fatti, mentre la gente comune attende la nemesi, idea non estranea all’Islam. Sì, bin Laden è stato poi ucciso dai Navy Seal, ma la situazione è rimasta difficile. Per anni da Kabul, così come da Herat, si continuava ad andar via, appena possibile, sfidando i respingimenti violenti o i campi profughi disumani. Nessuno si è mai chiesto come mai a Lesbo, durante l’incendio di Moria dello scorso anno, c’erano tantissimi afghani?».

E IL TERRORISMO intanto continuava a far sentire la sua voce fino all’Iraq. «Si diceva allora, per le vie di Kabul – ricorda Shakira – che non c’era la guerra, ma che quella missione serviva a recuperare democrazia; intanto si ‘producevano’ profughi. Come mai? Il mondo sembrava non accorgersene». Shakira confessa di non voler fare dietrologie inutili, né ha alcun desiderio di continuare a puntare il dito. Lei ritiene, come molti suoi connazionali, che: «L’America aveva subito in quell’11 settembre, un trauma fortissimo. Tuttavia alcuni vertici si erano convinti che si potesse creare un nuovo ordine mondiale con metodi di guerra, facendo leva sulle debolezze di un popolo già ferito da altri vent’anni. La realtà, con il tempo, si è fatta poi molto più complessa e i sospetti, intorno a quei dialoghi così frettolosi a Doha, lasciano immaginare un non detto pericoloso, forse solo mascherato di pace. Quel che è accaduto in Qatar non è così chiaro. Quel che ha concepito Trump, insieme ai talebani, sembra avere note a margine non ancora esplicitate». È passato un anno da quell’accordo modellato su esigenze politiche del momento, ma in quello stesso attimo si è offerta la patente di ingresso ai talebani e a quei terroristi che avevano fatto venir giù un pezzo di New York.