Facebook ha annunciato di aver modificato il suo algoritmo affinche siano messi in evidenza i post degli amici con i quali è più frequente lo scambio di omaggi (i like) e di commenti. Decisione in sintonia con il progetto di Mark Zuckerberg di costruire una comunità globale scandita dalla successione di comunità virtuali basate su affinità elettive. Ognuno può quindi puntare a costruire e contribuire a sviluppare il proprio gruppo di uomini e donne che la pensano allo stesso modo. In fondo la tendenza dei singoli a rinchiudersi nelle echo chambers di riferimento non è certo una novità nella Rete.

LA DECISIONE di Facebook, oltre che rispondere a una visione conformista della comunicazione on line (Mark Zuckerberg incentiva il politicamente corretto), ha un risvolto mercantile centrale nel capitalismo delle piattaforme: la fidelizzazione dei clienti. Organizzare un social network affinché ognuno si senta a suo agio e in famiglia significa infatti incentivare l’uso della piattaforma digitale, oltre che affinare e tendenze personalizzare le strategie di advertising, elemento dirimente per il successo di un social network come Facebook; o diversamente come un moteore di ricerca e fornitori si servizi informatici gratuiti come Google. Anzi, se Facebook è sinonimo di social network, la società di Larry Page e Sergej Brin è il simbolo di quello scambio di software gratuito con cessione della proprietà dei propri dati personali che costituisce l’«ordine del discorso» dominante nel cyberspazio.

NEL CAPITALISMO delle piattaforme, sia che si tratti di vendite su internet (Amazon) che di un motore di ricerca (Google) che di consegne di merci (la logistica), le «navigazioni» dei singoli sono un fattore importante non solo per accumulare Big data, ma anche per innovare i processi lavorativi, organizzativi delle imprese. Sono cioè le attività generiche, cooperative ad attirare l’attenzione e le strategie delle piattaforme digitali. E se il momento del consumo è l’attività per accumulare i Big data, tutta l’attività lavorativa è organizzata affinché l’innovazione dei prodotti e dei processi sia garantita, quasi facesse parte della prestazione lavorativa individuale. L’innovazione come vincolo ineludibile fa sì che tra consumo, distribuzione e produzione ci sia una osmosi continua nel tempo e nello spazio. Più che la totalità prefigurata da Gyorgy Lukacs, siamo di fronte a quel vortice che dalla produzione ascende alla distribuzione, al consumo, mentre la finanza lo alimenta.

OLTRE A SVOLGERE la propria mansione, i singoli lavoratori devono puntare a migliorare il flusso di dati, servizi, lavori. Per questo, ogni singola imprese deve costituire il proprio bacino di lavoro vivo, gestito e differenziato secondo parametri razziali, di genere e di competenza. Il tutto sotto il controllo di una precarietà elette a norma dominante nei rapporti di lavoro. La critica dell’economia politica ha sempre tenuto a distinguere tra forza-lavoro e lavoro vivo. Si vende la propria capacità di lavorare per vivere e si consuma per riprodursi proprio come forza-lavoro.

LA FORZA LAVORO come potenziale attività produttiva che diventa tale solo perché ci sono i padroni che trasformano quella potenziale attività in lavoro en general che origina valore e profitti. Nel capitalismo delle piattaforme i due aspetti – forza lavoro e lavoro vivo funzionano come due figure emergenti da una sliding door dove si entra come forza lavoro e si esce lavoro vivo. E visto che nel capitalismo contemporaneo il lavoro è ridotto a risorsa scarsa, il passaggio da forza lavoro a lavoro vivo è rappresentabile anch’esso come un vortice, dove la maggioranza dei partecipanti si percepisce come povera di relazioni, di capacità cognitiva e di reddito.

QUESTO è l’unico elemento drammaticamente vero, come testimonia anche il recente rapporto della organizzazione non governativa Oxfam, presentato il giorno di inaugurazione dell’annuale incontro degli oligarchi mondiali a Davos.

IL CAPITALISMO delle piattaforme, tuttavia, evoca un immaginario patinato dove tutto è finalizzato alla soddisfazione del consumatore. Velocità, azzeramento degli intermediari, abbattimento dei costi: sono queste le parole magiche nel capitalismo delle piattaforme. A patto però che i profitti salgano se non vorticosamente almeno a due cifre percentuali ogni trimestre. Per far sì che questo accada, i salari devono rimare al palo. Compressi, limitati per la maggioranza della forza lavoro; accostati a generosi benefit per una minoranza della forza lavoro. Nel linguaggio evocativo dei media, il capitalismo delle piattaforme è sinonimo di Gig Economy, cioè l’economia dei lavoretti. C’è però una «narrazione» che tiene banco: quello che la forza lavoro o il lavoro vivo sarebbe ormai governata dagli algoritmi. Qui occorre chiarezza. Gli algoritmi sono procedure per svolgere delle funzioni, delle attività. E se sono formalizzabili attraverso formule matematiche o diagrammi di flusso è quando sono trasformate in software che sono marchiate a fuoco dalla visione dei committenti, riflettendo e riproducendo rapporti di potere codificati socialmente.

I SOFTWARE delle piattaforme digitali sono lavoro morto, come recita la critica dell’economia politica, ma anche come strumento di governance della cooperazione sociale e produttiva. Non potrebbe essere diverso in un capitalismo che ha bisogno di sussumere l’intelligenza collettiva per riprodurre se stesso allargando la sua sfera d’azione sia temporalmente che spazialmente, fino a far diventare attività economica ambiti della vita sociale fino ad oggi collocati fuori dal regime di accumulazione. Il problema sta nel fermare le sliding doors dove si entra forza lavoro e si esce lavoro vivo. Non per essere solo forza lavoro o solo lavoro vivo, ma per fuoriuscire dal regime fondato sul lavoro salariato.