«Gentile Signora, ci scrive Bianchi Bandinelli che Lei sarebbe disposta a tradurre per noi il libro di Ceram, Götter, Graeber und Gelehrte, e che anzi con lui ha già preso accordi circa i criteri da seguire nella traduzione. Noi siamo lietissimi e Le mandiamo il testo con il più veloce mezzo che conosciamo onde possa, durante la Sua permanenza in Grecia, attendere a questo lavoro». Così recita la lettera d’incarico scritta a macchina su carta intestata di Giulio Einaudi Editore indirizzata a Licia Borrelli nella sede dell’Istituto Centrale del Restauro di Roma. È lei stessa a mostrarmela in una sera di fine ottobre nella sua casa romana, dove mi ha amabilmente accolto per parlare di Civiltà Sepolte, il best seller di Kurt Wilhelm Marek (noto con lo pseudonimo di C.W. Ceram) apparso in Germania nel 1949, che illustra le civiltà del passato – dagli scavi delle città vesuviane travolte dall’eruzione del 79 d.C. alla riscoperta di Troia – e spazia dall’antico Egitto alla regione mesoamericana dove fiorirono Maya e Aztechi.

Il documento di Einaudi, che per i bordi bruciati da un incendio domestico somiglia a una vecchia pergamena, è datato 20 aprile 1950 e firmato da Cesare Pavese. «Non ho mai conosciuto Ceram. Fu Ranuccio Bianchi Bandinelli, di cui ero allieva, – ricorda Licia Vlad Borrelli – a fare il mio nome all’editore…». Il compenso era di centoventimila lire. «Ero giovane e avevo bisogno di lavorare», continua, rievocando i primi passi all’Università di Firenze sotto l’ala del grande storico dell’arte classica che in seguito avrebbe aderito al marxismo. Sono incuriosita dal riferimento alla Grecia. Mi informa che proprio nel 1950 si trovava ad Atene, in qualità di allieva della Scuola Archeologica Italiana, prestigiosa istituzione fondata nel 1909 su impulso della Missione Archeologica Italiana di Creta, attiva dal 1899 e diretta da Federico Halbherr. Indica una foto in bianco e nero che ritrae una splendida fanciulla con i capelli raccolti in una fascia, un elegante cappello di paglia fra le mani e modernissimi sandali bianchi legati alla caviglia, in sella a un asino. «Sono io a Lemno nell’estate del 1951 – racconta –, mi ero recata lì dopo la guerra con la missione archeologica guidata da Luigi Bernabò Brea. Il nostro compito era quello di riprendere gli scavi nell’insediamento dell’età del bronzo di Poliochni e a tale scopo esaminammo i quaderni con gli appunti degli allievi della Scuola di Atene relativi alle indagini effettuate nel sito tra il ’30 e il ’36; il lavoro era complicato perché la zona era stata bombardata, e noi saltavamo da un muretto all’altro per evitare gli ordigni inesplosi».

Rivivere gli albori delle ricerche italiane nell’Ellade attraverso la voce di una protagonista ha il sapore del vento salmastro che accarezza le isole egee, soprattutto quando il racconto si arricchisce di aneddoti. «L’allora direttore della Scuola, Doro Levi, si era preoccupato di trovarci un alloggio ma la cosa buffa è che quando arrivammo sul posto i collaboratori di Bernabò Brea, un restauratore e un geometra, dissero che non avrebbero dormito sotto il mio stesso tetto perché ero una donna, non ero sposata e li avrei disonorati presso la famiglia – ride –; così dovetti andare ad abitare dalla proprietaria della casa, in una stanza sopra la stalla, mentre mi era consentito di consumare i pasti assieme agli altri. Per fortuna i Greci erano molto accoglienti».

È questo il quadro in cui l’archeologa allora trentenne lavora alla traduzione di un libro che di lì a poco sarebbe diventato un successo mondiale, tuttora amatissimo da diverse generazioni di lettori, non solo per l’indubbio fascino delle vicende narrate ma anche per il carattere morale che Marek, illustre giornalista caduto in disgrazia con l’insorgere del nazismo e appassionatosi alla storia antica durante la prigionia da soldato, seppe infondere alla sua opera. «Non avevo una conoscenza approfondita del tedesco e il testo era ostico», ricorda Vlad Borrelli. Quando le obietto che la resa in italiano è di una limpidezza ancor oggi invidiabile, risponde con modestia che il merito è tutto dell’autore e della sua straordinaria capacità di rivolgersi a un vasto pubblico con uno stile lontano dall’aridità del puro dato scientifico e con la convinzione che la ricerca archeologica acquisti valore solo se, come scrive Donatella Taverna nella premessa alla ristampa Einaudi del ’95, «attraverso l’universale multiformità dell’uomo colga l’essenza e conduca dunque alla scoperta di se stessi».

Erano quelli i tempi in cui cominciava un interesse generico per l’archeologia e Bianchi Bandinelli sottolineava nella prefazione al volume edito nel 1952, che esso sarà utile alla cultura italiana perché è «la narrazione di come la civiltà moderna ha scoperto le varie fasi delle civiltà antiche, come il nostro orizzonte culturale si è allargato per mezzo di queste scoperte». Inoltre, con questo libro gli italiani avrebbero finalmente potuto superare il retaggio scolastico secondo cui i Romani furono il miglior popolo al mondo mentre gli altri popoli dell’antichità erano «inferiori, vassalli e barbari». Ma se Bianchi Bandinelli riconosceva a Ceram il pregio di essersi basato su opere di archeologi accreditati e di non essere caduto in errori e fantasiose aggiunte, nondimeno gli rimproverava di aver utilizzato una terminologia pseudostorica. «Bianchi Bandinelli criticava l’impostazione ideologica del libro di Ceram – interviene Vlad Borrelli –. Quest’ultimo era influenzato dalle teorie sulla cosiddetta “morfologia della storia” che sulla scia di Spengler e Frobenius erano particolarmente in voga nella Germania degli anni successivi alla Prima guerra mondiale». Un concetto effettivamente limitante, ribatto. «Certo, perché la Storia – che è un complesso di iscrizioni, monumenti e oggetti – veniva ridotta a un ciclo per cui ogni popolo nasce, matura e poi decade…».

Se Civiltà Sepolte, come recita anche il sottotitolo, è il «romanzo dell’archeologia», i protagonisti delle scoperte sono appunto figure romantiche – quali Heinrich Schliemann o John Lloyd Stephens – che suscitano interesse e passione nel lettore, portandolo a immedesimarsi con un mestiere che a metà del Novecento i «profani» associavano ancora all’avventura. Il successo dell’opera risiede, inoltre, nel fatto che per la redazione di ciascun capitolo, Ceram poté contare non solo su testi scientifici ma anche su libri di carattere divulgativo, come il diario di Howard Carter che ripercorreva passo dopo passo, alternando momenti di suspense a eccezionali rivelazioni, l’avvincente ritrovamento della tomba di Tutankhamon. Prassi che non fu invece seguita dagli archeologi italiani, che pure in quegli anni erano impegnati in importanti scavi a Creta e nel Dodecaneso, in Libia e in Cirenaica. «Gli italiani di solito si limitano all’esposizione, o alla pubblicazione scientifica – afferma Vlad Borrelli –. Il tipo di cultura e di letteratura italiana non cede alla parte autobiografica del personaggio ma si riferisce piuttosto ai ritrovamenti». Bianchi Bandinelli sostenne che ciò dipendeva dal fatto che gli archeologi italiani non sono mai stati romantici. «Neanche io lo sono», ammette con un velo di ironia. Gli unici due archeologi che Bianchi Bandinelli colloca in un orizzonte romantico sono Umberto Zanotti Bianco e Paola Zancani Montuoro, i quali – con risorse private e ostacoli di varia natura, tra cui gli inseguimenti da parte della polizia fascista – cercarono il tempio di Hera alla foce del Sele presso Paestum, uno dei santuari più suggestivi della Magna Grecia, e dopo averlo trovato contrassero la malaria. «Paola Zancani era imparentata con la mia matrigna e fin dai tempi del liceo i suoi racconti mi affascinavano», confida. Tanto da indurla a intraprendere gli studi antichistici. «Sì, cominciai proprio grazie a lei ma debbo anche aggiungere che l’archeologia mi interessava come base della nostra storia, del nostro mondo». La medesima attitudine che, in fondo, mosse Ceram e propiziò forse fatalmente il muto ma intenso incontro tra il pioniere della divulgazione e una già promettente studiosa.