Per capire cosa sia stato e soprattutto «chi» sia stato lo Swing Club, bisogna tornare alla Torino dei primi anni ’60. Se, per ragioni anagrafiche o vari motivi della vita, quella Torino vi è rimasta sconosciuta, immaginate una città prigioniera della Fiat, sottomessa ai ritmi della catena di montaggio, avvolta da un grigiore perenne non addebitabile soltanto al clima, spietata con i terroni arrivati sin qui in cerca di lavoro. Se dici Torino, negli anni ’60 dici tristezza. Ma c’è chi la tristezza prova a zittirla riempiendola di musica. Lui si chiama Mario Barazzotto, disegna fumetti ascoltando jazz , e quando il buio manda tutti a dormire chiude bottega. A piedi percorre l’isolato fino a una pizzeria ristorante in via Fratelli Carle 46, nel quartiere borghese della Crocetta. Dietro al bancone impasta pizze per gli amici che arriveranno più tardi. Si chiamano Gato Barbieri, Hengel Gualdi, Sergio Farinelli, Emilio Siccardi… Gente che il jazz lo maneggia tutti i giorni.
Via Fratelli Carle, fino al 1962, è la prima sede dello Swing Club e segna l’inizio di una leggenda musicale durata fino al 1982. La Crocetta, però, odora troppo di pulito per l’impasto del jazz, tutto note, sudore, whisky e sigarette. Marco scova una cantina nel centro, via Botero 18, tre locali. Li rimette in sesto, li arreda con panche e banchi da scuola, trova posto per il bar e una specie di cucina. Da lì a poco entra in scena Nini Questa, fisico minuto, sempre vestita di bianco, un sorriso cui non sai bene che umore assegnare. Nini diventa proprietaria dello Swing, incarnandolo fino alla fine. Insieme a Toni Lama e all’irrefrenabile Giorgio Bartolucci, esperto cacciatore sulla scena jazzistica parigina, di anno in anno porta sulla pedana nomi che corrispondono ad altrettanti mostri sacri. Perché mai dovrebbero venire a suonare a Torino triste e solitaria? Semplicemente perché lì c’è lo Swing Club. Dove la gente ama tirare l’alba vivendo il jazz a tu per tu con chi lo fa, dove si beve maluccio e si mangia male.
Ma non importa quando ti ritrovi davanti Chet Baker, Jean Luc Ponty, Lou Bennet, Phil Wood, Don Byas, Dizzy Gillespie… E tutto il meglio del Made in Italy. L’Italia diventa il ’68, le lotte operaie. Torino è sempre la Fiat, ma sulle panche dello Swing siede adesso anche chi in quelle rivoluzioni crede. Gli anni di piombo precedono di poco gli ’80 della Milano da bere, quelli in cui Nini dovrà arrendersi all’impossibilità di continuare il sogno.
Oggi l’insegna di via Botero 15 recita Compro oro. Ed è proprio questo il titolo del documentario scaricabile dalla piattaforma ownair.it a 9,99 euro e in noleggio su medialibrary,it/home/home.aspx, nato da un’idea di Toni Lama, sceneggiatura di Giulia Passera e Marino Bronzino, regista insieme a Lama. Sarebbe limitativo pensare a un’ora e mezza di cinema nostalgico, votato a resuscitare un mito. Di certo Lo Swing è il protagonista, ricordato dagli aneddoti e dalle esperienze di chi ci ha suonato: Pupi Avati, Piero Angela, Carlo Actis Dato, Furio Di Castri, Franco Mondini, Enrico Rava, Franco Cerri, citando solo alcuni. Protagonista, però non egemone. Il parallelo tra la realtà sociale di Torino e la realtà di una cantina popolata da gente che a vario titolo non rientrava negli schemi sabaudi, conferisce alla storia ampiezza di sguardo e di respiro.
Le immagini non usano la chiave del documento d’epoca, e invece si affidano al passepartout di un sorriso divertito, di un gesto legato alla memoria, delle parole fluviali di Giorgio Bartolucci. Così, adottando un’encomiabile semplicità stilistica, la storia dello Swing rinasce e diventa unica anche per chi ne era all’oscuro. Nini Questa compare soltanto in una foto bianco e nero. Dell’anima dello Swing non ci sono altre immagini pubbliche. D’altronde, si sa, l’anima, pure se sporca come quella del jazz, non ama confondersi con la materia.