Un’ossessione amorosa per un uomo di trent’anni più grande. Una voce fuori campo la racconta alla prima persona mentre sullo schermo scorrono come diapositive foto di viaggio e di intimità: scorci urbani, vestiti impilati su un letto, istanti di pioggia, un tramonto, un banco del pesce al mercato, dei pacchetti di caffè, oggetti banali, forse condivisi, forse evocativi di esperienze che non sappiamo, a suggerire un significato in più per chi li ha voluti immortalare, coordinate sentimentali di un incontro che dà libero corso a fantasie opposte e reciproche, geografie di una passione che si sviluppa tra Chicago e il New Mexico. La voce scandisce come un basso continuo la struttura ritmica in levare di un rapporto con un uomo in fuga, sempre in viaggio e sempre fuori campo.

INIZIA COSÌ, con un prologo di voce e stills, Acts of love di Isidore Bethel e Francis Leplay, film a cavallo tra autofiction e cinema nel cinema, presentato in questi giorni in anteprima europea al Festival del documentario di Salonicco. Come fossero flash mentali, i ricordi lampeggiano sulla narrazione di un rapporto che si annoda sospinto dal potere della passione e poi si sfilaccia tra bugie, omissioni, gelosie e interferenze fino a sciogliersi. Mentre l’amante è lontano non solo fisicamente ma anche emotivamente, il narratore-regista racconta di aver pubblicato su una app d’incontri l’annuncio di un provino per un film promettendo ai candidati che avrebbero avuto in cambio qualcosa, forse sesso forse altro.
È allora che le still lasciano il passo alle immagini in movimento: ricordi tutti ancora da costruire e da fissare, impressioni di una nuova storia da scrivere, ma sarà la trama di un film o di un nuovo rapporto d’amore? Da una narrazione al passato si scivola in un presente in cui la realtà sembra aver perso la sua innocenza, sempre più straniata, sempre sul confine della messa in scena. Assistiamo infatti ai provini sapendo che forse è una ripicca del regista per reagire al tradimento, forse un tortuoso processo di rielaborazione della perdita mediato dalla creazione artistica. Uomini diversi si presentano di fronte all’obiettivo, parlano della propria vita sessuale. Mentre svelano la propria intimità qualcuno sceglie letteralmente di spogliarsi e di invitare il regista stesso a spogliarsi.

IL CINEMA diventa uno strumento di seduzione e di esibizione e a condurre il gioco non è quasi mai chi sta dietro la macchina da presa. Tanto più che il regista-narratore compare nel controcampo con la sua videocamera e il gioco di sguardi si moltiplica: chi guardava viene guardato, chi interrogava viene interrogato ed entrambi i soggetti vengono a loro volta filmati.
Attraverso conversazioni sempre più intime si entra in confidenza e si scivola nel sesso. Ma ogni atto che pare d’amore è in realtà (anche) una ricerca di fotogenia, di plausibilità per un possibile film a venire. Quando sesso e arte si contaminano è possibile stabilire una linea di confine tra simulazione e verità? Una continua tensione introspettiva anima il regista-io narrante che per di più intrattiene conversazioni telefoniche con una madre assai scettica sull’opportunità di squadernare la propria intimità in un film. Ma né una madre né nessun’altra autorità hanno diritto di imporre al soggetto la strada da percorrere. Montatore, produttore, regista e attore franco-statunitense, Isidore Bethel firma con lo sceneggiatore Francis Leplay un film sul rischio che ogni atto creativo comporta e sui limiti della finzione nel cinema come nelle relazioni.