Lo scorso 23 gennaio è morto il re dell’Arabia Saudita, Abdallah ben Abdelaziz al-Saud. Membro della dinastia al-Saud, figlio di re Abdelaziz Ibn Saud, il fondatore, grazie ai servizi britannici, dell’Arabia Saudita, uno stato inventato di sana pianta mettendo insieme due province dell’ex impero ottomano, il Najd e l’Hejaz, per servire i piani di divisione del mondo dei maggiori imperi coloniali di allora (e anche di adesso).
È stato il principe ereditario e regnante de facto dal 1995 al 2005 a causa dello stato di salute dell’allora re Fahd, suo fratellastro, per salire poi ufficialmente al trono a 71 anni dopo la morte di quest’ultimo. Con un patrimonio personale stimato in 18,5 miliardi dollari, è terzo nella classifica dei re più ricchi. Ma è alla testa di un clan di circa 25 mila persone che insieme controllano la più grossa fortuna del mondo. Un clan che gestisce il paese come una proprietà privata.

In effetti l’Arabia Saudita è l’unico paese al mondo che porta ufficialmente il nome di una famiglia. Questo clan scelto dagli inglesi perché legati a una rigida tradizione conservatrice e a una lettura ottusa dei dettami dell’islam: il Wahhabismo, che è un movimento politico-religioso fondato nel XVIII secolo da Muhammad ibn Abd al-Wahhab sulla base di una visione puritana e rigorista della tradizione musulmana che va contro la maggior parte delle altre dottrine dell’Islam e sopratutto va contro ogni forma di religiosità popolare e al tempo stesso contro ogni pensiero razionale o innovazione. L’ideale, quando si vuole mantenere un popolo arretrato e ignorante. Non a caso gli inglesi misero da parte le grandi famiglie dell’Hejaz che stavano cercando di andare verso forme di modernizzazione della loro società per scegliere i beduini del deserto dell’Hejaz e tra questi la famiglia più conservatrice e più arretrata di tutte.

Bisogna pur dire che in un clan così vasto e così ricco qualcuno di intelligente e di aperto c’è stato e ci sono stati anche timidi tentativi di cambio di direzione, ma sono stati repressi anche con la morte, quando è stato necessario.

Da quando è al potere, il clan ha mantenuto il paese sotto una cappa di piombo. La polizia religiosa gira in continuazione per far rispettare gli spietati dettami della loro pseudo morale religiosa, che obbliga le classi inferiori a vivere in un inferno dove ogni espressione di amore o di sessualità è repressa, mentre loro girano il mondo spendendo i loro miliardi in divertimento, alcol, droghe, sesso, gioco d’azzardo e altri vizi.

Nel paese più ricco del pianeta le differenze sociali sono estreme. Nessuno muore di fame ma le classi più povere sono giusto giusto al livello della sopravvivenza. Persistono varie forme di schiavitù di fatto e gli immigrati in modo particolare sono trattati come pura merce usa-e-getta, senza nessun diritto, nessun rispetto. Le donne sono recluse: non possono uscire liberamente, non possono guidare, non possono intrattenere rapporti sociali con maschi estranei alla propria famiglia. Chi esce dalle regole imposte dal regime, viene frustato nel migliore dei casi, nel peggiore può essere decapitato o lapidato pubblicamente.

È il caso, ad esempio del blogger 31enne, Raif Badawi, condannato a 10 anni di carcere, a pagare una multa di 270 mila dollari, e in più a 1000 frustate (che in queste settimane gli vengono somministrate al ritmo di 50 ogni venerdì dopo la preghiera di mezzogiorno). Tutto questo per aver osato criticare il regime sul suo blog.

In questi casi il silenzio dei milioni di #jesuischarlie diventa assordante come una cannonata. Dove sono le fiaccolate, dove sono le interrogazioni parlamentari, le prese di posizione delle istituzioni, i ritratti srotolati lungo la facciata dei comuni, come è stato giustamente il caso quando era il regime iraniano o sudanese a condannare qualcuno o qualcuna? Dove sono questi innamorati della democrazia e della libertà di espressione?

Ma peggio di quello che fa la famiglia Ibn Saud in Arabia c’è solo quello che fanno in giro per il mondo, da mezzo secolo in qua. Miliardi spesi per diffondere la loro ideologia arretrata, le loro idee storte della vita e della società. Tonnellate di libri, cassette video, dvd, cd, cassette audio distribuite gratuitamente. Scuole aperte in molti paesi poveri, nei quartieri più disagiati, in Asia e in Africa. Borse studio per i migliori di queste scuole nelle università del regno, per produrre sempre più imam oscurantisti e moltiplicatori delle loro idee malate. Ecco come in luoghi in cui 20 anni fa ancora molte donne di famiglie musulmane continuavano ad andare a seno nudo come tutte le altre, oggi sono arrivati i burqa ed è arrivato Boko Haram.

Ma oltre la diffusione della sola cultura dell’integralismo, il regno saudita e i suoi vicini degli emirati del Golfo hanno creato e finanziato tanti gruppi armati di fanatici in giro per il mondo, sfruttando il malessere vero di popolazioni oppresse per spingerle verso una radicalizzazione non in nome della loro oppressione ma in nome della loro diversità religiosa: dalla Cecenia alla Bosnia, dalle Filippine allo Xinjiang; dall’Algeria alla Nigeria.
Tutto questo però non viene mai nominato quando si parla di scontro di civiltà, di guerra al terrore. Il presidente François Hollande, una settimana dopo la marcia pseudo-repubblicana di Parigi, ha reso omaggio al re Abdullah salutando «la memoria di un uomo di Stato il cui lavoro ha profondamente segnato la storia del suo paese e la cui visione di una pace giusta e duratura in Medio Oriente resta più valida che mai». Visione di una pace giusta e duratura?
Perché si fa la guerra al terrore ma nello stesso tempo si va a braccetto con i capi terroristi? Perché si entra nello scontro di civiltà per difendere la libertà e si è nello stesso tempo alleati strategici del principale sponsor dell’oscurantismo di cui è accusato l’altro campo?
Molti dicono che dopo tutto, l’Arabia è un paese sovrano e ha il diritto di avere una propria politica estera. Anche diversa da quella dei suoi alleati. Ma la verità è che le monarchie del Golfo possono permettersi di avere le politiche che hanno perché hanno le spalle coperte. Ci ricordiamo tutti di come Saddam Hussein impiegò 24 ore per ridurre in polvere l’esercito del Kuwait. Se non fu per l’intervento di molte nazioni saggiamente allineate dietro ai padroni del mondo post guerra fredda, il Kuwait oggi non esisterebbe più e sarebbe semplicemente una delle province della repubblica irachena, dittatoriale sì, ma laica. È per la fine che fece Saddam che oggi l’Arabia Saudita e il minuscolo Qatar possono intromettersi nella politica interna della Libia, della Tunisia, dell’Egitto, dello Yemen e soprattutto della Siria. È perché hanno le spalle coperte dalla pesante presenza militare della Nato e di Israele nella regione che i paesi del Golfo, in testa l’Arabia saudita, possono avere un peso con l’iniezione di soldi, armi e mercenari, sulle politiche interne di vari paesi del mondo. Non c’entra niente la sovranità. C’entra un piano comune di gestione della regione e del mondo. Una gestione sotto il segno degli affari sporchi e della guerra infinita, fine a se stessa. Semplicemente perché i signori della guerra da una parte e dall’altra ne traggono ampiamente beneficio. Perché le famiglie ricche alla testa di più della metà delle risorse di questo pianeta non hanno né nazionalità, né colore, né religione, e quando uccidono (o fanno uccidere da un terrorista o da un soldato) non è per religione, non è per civiltà, e l’unico valore che difendono è quello dei loro conti nei paradisi fiscali.

Allora io dico che il rispetto lo dobbiamo a ogni morto, ricco o povero, sultano o figlio del ghetto. Ma nessuno mi venga a cantare le lodi del criminale morto. Perché chi va a piangere al funerale di un criminale, chi ne canta le lodi sono solo i suoi compari: i criminali.