Oggi, per festeggiare i 60 anni, l’Unione europea si offre una Dichiarazione, al peggio un lifting per mascherare i segni del tempo, al meglio l’avvio di un nuovo slancio. Anche nel passato, due importanti tappe della storia europea sono nate per rispondere al vento dell’euro-pessimismo, che soffiava forte all’inizio degli anni ’80, quando sembrava essersi spenta la forza delle ragioni della costruzione europea, nata sulle macerie della guerra.

All’inizio degli anni ’80, l’Europarlamento adotta il progetto di Altiero Spinelli su un trattato di Unione europea e l’allora presidente della Commissione, il francese Jacques Delors, propone di realizzare l’Europa senza frontiere. Saranno l’Atto unico del dicembre ’85 (12 paesi), tappa fondamentale per l’Unione europea, che si propone di realizzare uno spazio senza frontiere di libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali e, nel ’92, il Trattato di Maastricht, cioè l’Unione economica e monetaria e vari aspetti politici. Nel ’93 iniziano i negoziati che nel 2002 porteranno all’introduzione dell’euro (oggi la moneta di 19 paesi).

Maastricht sono i «parametri» tanto deprecati (3% di deficit, 60% di debito rispetto al pil, valori relativi, determinati in relazione alla situazione economica del momento, poi trasformati in feticcio). Ma Maastricht è anche la Pesc (Politica estera e di sicurezza comune), la cooperazione nei campi della giustizia e degli affari interni e la creazione della cittadinanza europea. Oltre ai vari trattati di adesione (dal ’73 al 2011, dalla Gran Bretagna, Danimarca e Irlanda alla Croazia, passando per l’allargamento storico all’est nel 2004) – la Cee prima l’Ue poi, passano dai 6 paesi fondatori del ’57 a 28, per diminuire a 27 con la Brexit. Dopo Maastricht inizia una stagione di fitta sequenza di nuovi trattati: Amsterdam ’97, Nizza 2001, Lisbona 2007 (di funzionamento della Ue), Trattato di stabilità 2012, e Mes (Meccanismo europeo di stabilità). Nel frattempo, la Ue ha subito una grossa battuta d’arresto: la bocciatura nel 2005, con due referendum (Olanda e Francia), del Trattato costituzionale. Da allora, la Ue è diventata più fredda, come se avesse perso l’anima e l’entusiasmo dei popoli.

Eppure, nel ’57, quando il 25 marzo a Roma viene firmato tra sei paesi (Francia, Germania, Italia, Benelux) il Trattato di fondazione della Comunità economica europea, dietro un testo arido di 248 articoli, «questa volta, gli uomini d’occidente non hanno mancato d’audacia e non hanno agito troppo tardi» (Paul-Henri Spaak, ministro degli Esteri belga, uno dei padri fondatori). Erano passati solo 12 anni dalla fine della guerra. I due nemici storici – Francia e Germania – avevano trovato la strada dell’intesa. La riconciliazione era iniziata già nel ’52, solo 7 anni dopo la seconda guerra mondiale: i nemici accettano di mettere in comune i materiali dell’industria bellica, il carbone e l’acciaio, nasce la Ceca. La dichiarazione di Robert Schuman, ministro degli Esteri francesi, nel ’50 aveva individuato una strada: «L’Europa non si farà in un colpo, né con una costruzione d’insieme. Si farà con realizzazioni concrete, creando prima di tutto una solidarietà di fatto».

Nel ’52 arriva però il primo fallimento: la Francia rifiuta la Ced, la Comunità europea di difesa (oggi tornata di attualità come Europa della difesa). Charles De Gaulle si oppone allora a una «mescolanza apolide» degli eserciti. La Francia imporrà il trattato Euratom nel ’57 per aderire alla Cee. Nel ’68 vengono soppressi i diritti doganali: tra il ’57 e il ’70 il commercio intracomunitario si moltiplica per sei, gli scambi della Cee con il resto del mondo triplicano.

Il trattato di Roma apre la strada per «un’Unione senza sosta più stretta tra i popoli europei». Lo farà seguendo due linee, che spesso sono diventate contraddittorie: la progressione verso l’unione politica, che avanza a singhiozzo con un meccanismo stop and go senza aver ancora fatto il grande salto federalista, e il pragmatismo degli accordi economici, un’ingegneria complessa, che mostra oggi tutta la sua fragilità. L’Europa è la Pac (politica agricola, che per decenni ha assorbito quasi la metà del budget), la politica dei trasporti, ecc. È anche Schengen e Erasmus. È anche il Parlamento europeo, eletto dal ’79 a suffragio universale diretto.

Oggi, ci sono ancora paesi che bussano alla porta dell’Europa: cinque candidati (Albania, l’Ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Montenegro, Serbia e Turchia, ma per questo paese dopo gli ultimi avvenimenti l’accesso sembra ormai chiuso). Bosnia e Kosovo sono in lista d’attesa. La condizione, per i candidati, è il rispetto dei «criteri di Copenhagen» (stabiliti nel ’93), con la democrazia al centro. Ma per il momento l’allargamento è in una fase di congelamento.