È un viaggio nel mondo dell’umanitarismo, Specchi scomodi di Estella Carpi (Mimesis, pp. 160, euro 14), alla ricerca di una diversificazione tra compassione disinformata e solidarietà informata. L’autrice, antropologa sociale e ricercatrice presso lo University College of London, propone una «etnografia delle migrazioni forzate nel Libano contemporaneo» il cui scopo tuttavia è più esteso. Il volume incrocia infatti una serie di dibattiti consustanziali alla fase storica che viviamo, segnata da un inanellarsi di crisi e situazioni emergenziali, non ultima quella della pandemia, che si intrecciano tra loro, si cronicizzano e ingarbugliano, incastrandoci spesso inaspettatamente in un gioco di «specchi scomodi».

Uno dei pregi del lavoro di Carpi è quello di inserirsi di traverso rispetto alla polarizzazione tra sostenitori e detrattori della solidarietà internazionale, resa a tratti sterile dalle strumentalizzazioni politiche che hanno permeato e spesso abbruttito il dibattito pubblico (italiano e non solo) nell’ultimo decennio, soprattutto a seguito dell’ultima ondata migratoria dal Mediterraneo verso l’Europa. Di traverso perché il libro problematizza la solidarietà e l’intervento umanitario da una prospettiva insolita, che senza mettere in discussione le responsabilità degli stati sancite da varie convenzioni internazionali, offre una critica delle logiche dell’approccio umanitario.

CI MOSTRA come le emergenze umanitarie che ciclicamente la comunità internazionale è chiamata a gestire come «eccezionali» sono spesso solo l’ultimo anello di una lunga catena di crisi «invecchiate», politicamente irrisolte alla fonte e dunque prevedibilmente destinate a produrre catastrofi sociali e umanitarie. La scelta del Libano per condurre questa indagine appare particolarmente calzante. Tradizionalmente «narrato» come stato tampone, destinazione perennemente temporanea di gruppi di popolazioni costretti alla migrazione forzata da altre aree del Medioriente, il Libano sembra piuttosto essere il paese ‘prescelto’ per la gestione di crisi irrisolvibili, prevedibilissime e che hanno prodotto un accumularsi storico di varie ondate di migrazioni forzate, dalla migrazione palestinese (a più riprese a partire dal 1948), a quella legata alla guerra civile libanese (1975-1990) e poi alla guerra del 2006 tra il Libano e Israele, fino alla più recente migrazione dei siriani in fuga dal conflitto in Siria iniziato nel 2011 e tuttora in corso.

IL SECONDO PREGIO di Specchi scomodi sta nella metodologia cui l’autrice dedica un intero capitolo iniziale. La prospettiva «dal basso» è utilizzata attraverso la voce di quattro donne – Souhà, Iman, ‘Alia e Amal – beneficiarie di aiuti umanitari e rappresentative di altrettante declinazioni dell’aiuto umanitario in aree differenti del Libano contemporaneo. Estella Carpi sceglie di sovvertire la logica paternalistica dell’umanitarismo che inquadra i beneficiari degli aiuti umanitari come meri recettori passivi.

IL PATERNALISMO sta nell’attitudine dei fornitori dell’aiuto umanitario di farsi interpreti delle esigenze dei beneficiari, finendo non solo per fornire spesso assistenza poco utile, o escludere chi avrebbe titolo per accedere all’assistenza umanitaria, ma anche di mettere sotto silenzio quelle che, anche all’interno di una stessa comunità, possono essere preferenze ed esigenze diverse in uno spettro che tocca la sfera della sussistenza come quella dell’ideologia politica.
C’è infine in Specchi scomodi l’interrogazione diretta del divario tra promesse ed effetti concreti della «macchina umanitaria». Il «fallimento» d’altronde anch’esso prevedibile. Se infatti le logiche sono spesso presentate come inscritte in un manuale neutrale, esse sono piuttosto tarate sugli obiettivi dei finanziatori e fornitori di aiuti (in larga parte occidentali), che finisce per ridurre la stessa della «macchina umanitaria» al ruolo di tampone di catastrofi attese derivate da crisi politiche che la comunità internazionale ha già scelto di non risolvere.

IN QUESTO CIRCOLO VIZIOSO, l’aiuto umanitario va a esacerbare crisi preesistenti, rompendo – come il libro mostra bene – equilibri sociali già fragili, come quello tra comunità beneficiarie di aiuti e comunità dei paesi ospitanti. Interrogare e ripensare la solidarietà significa, allora, non solo trasformarla e renderla efficace, ma anche e soprattutto rimetterla al centro di una progettualità cosmopolita che ripensi criticamente ai «vulnerabili», alle «vittime», senza tuttavia esonerare i carnefici – coloro che ci hanno abituati a vivere in un permanente stato di emergenza.