Dopo quattro alluvioni in dieci anni, anche a Carrara qualcuno comincia a dire ad alta voce quello che tanti hanno, per tempo, denunciato. Al di là del fatto contingente che ha provocato l’ennesima esondazione – il cedimento di un argine da poco ricostruito del torrente Carrione – non sarà che è stato costruito troppo e male? Abbandonando poi la cura dei corsi d’acqua minori, che sono stati in parte o del tutto “tappati” sia dai residui del taglio del marmo, che dalla realizzazione di nuove strade e stradelle per arrivare alle preziose cave?

Agli interrogativi posti da ambientalisti e geologi, ma anche dalle istituzionali Arpat e Università di Siena, la città apuana aveva finora sempre risposto con un’ampia scrollata di spalle. Il motivo è facilmente intuibile: buona parte della ricchezza di Carrara, nonostante le scandalose sperequazioni fra la ventina di grandi concessionari delle attività estrattive e una filiera del marmo che arriva a lavorare “in loco” meno del 40% del materiale strappato via alla montagna, proviene dalle Apuane.

Ora, a pochi giorni da un disastro i cui effetti sono drammaticamente ben visibili nelle centinaia di persone ancora sfollate dalle loro case allagate, e in decine e decine di capannoni industriali e laboratori invasi dal fango, l’odierno convegno fiorentino “Quale futuro per le Alpi Apuane? È possibile un’escavazione non distruttiva?”, sarà probabilmente accusato di essere provocatorio. Accusa, va da sé, agìta dai ricchi e potenti sostenitori dello status quo verso un’opinione pubblica ferita, sgomenta, iraconda verso tutto e tutti.

In realtà le domande dell’appuntamento fiorentino – si parte alle 10, al teatro Affratellamento in via Orsini – sono da anni al centro delle riflessioni delle Rete dei comitati per la difesa del territorio, organizzatrice della giornata insieme alla sezione toscana del Club alpino italiano e al comitato “Salviamo le Apuane”. E non per caso partecipano anche Fai, Italia Nostra e Legambiente. Da quest’ultima è già arrivato uno sconsolante riassunto: “La ricostruzione dell’argine del Carrione era prevista dopo l’alluvione del 2003. Avevamo denunciato l’inutilità di quell’opera, senza politiche che ridavano spazio al fiume attraverso delocalizzazioni o il ripristino delle aree di esondazione. Inoltre la costruzione dell’argine è diventata l’alibi per nuove edificazioni nelle aree ‘messe in sicurezza’. Basti pensare che gran parte della piana di Marina è considerata ad elevato rischio idraulico, e proprio qui il Comune prevede nuove costruzioni”.

Quanto alla situazione in zona cave, il presidente della ReTe, il geologo Mauro Chessa, ricorda: “Anche se nell’ultima esondazione grossa responsabilità va attribuita ai lavori sull’argine del Carrione, ci sono ancora molti ‘ravaneti’, cioè le pareti dove si accumulano i detriti dell’attività estrattiva. Alcuni sono vecchi, altri continuano a essere alimentati nonostante che la regione Toscana abbia ordinato di toglierli tutti. Questi massi e scarti di lavorazione con la pioggia rotolano giù, nell’alveo del fiume, intasandolo o andando a sbattere contro quegli argini che, se malfatti, si sfondano”.

Fra i partecipanti al convegno anche Claudio Greppi, Alberto Asor Rosa, Paolo Baldeschi e l’assessora toscana all’urbanistica Anna Marson. Quest’ultima da tempo impopolare sotto le Apuane, dopo aver costretto il Comune di Carrara alla conferenza paritetica istituzionale, a causa dell’ennesima variante “espansiva” al piano strutturale. Dopo che c’erano già state tre alluvioni.