Nell’Italia degli anni Settanta, quando il sesso malgrado il Sessantotto e le sue  rivoluzioni era ancora un tabù, l’immagine di quella giovane donna sensuale con le autoreggenti nere sotto alla gonna sbarazzina aveva un potenziale esplosivo. E lasciamo stare il senso comune dell’«italiano medio» ma proviamo a immaginare se in un serio consesso politico-intellettuale (Pci?) qualcuno avrebbe mai ammesso di amare un regista come Salvatore Samperi. Il tabù di cui sopra era – e forse ancora è o meglio è di nuovo oggi – il rigido confine tra cultura alta col marchio doc d’autore e cultura bassa che i movimenti tra Settantasette e dintorni (prima e dopo) hanno messo radicalmente in discussione, pure se poi ci sono voluti ancora anni, e fratture critiche insanabili perché si parlasse «seriamente» di certi film, registi, attori.

 
Cosa c’entra tutto questo con Laura Antonelli, nata Laura Antonaz a Pola, e morta ieri a Ladispoli a 73 anni per un infarto?

 
Lei era quel corpo del tabù di una Malizia nazionale, ammiccamento erotico al desiderio proibito – e persino inammissibile – dei maschi italiani che come il ragazzino adolescente protagonista del film di Samperi spiavano quel corpo dal buco della serratura. Per proiettarvi una mitologia (maschile) di un modello femminile, la bomba sexy che tutti sognano, irresistibile nei manifesti di Trappola per il lupo (Dr.Popaul) di Claude Chabrol, insieme a Jean Paul Belmondo con cui Laura Antonelli visse una passionale (e molto complicata) storia d’amore. Un mito, e un’icona che ha attraversato il tempo e le generazioni al di là dei film, creatura più fantasmatica che reale (nonostante la sensualità delle curve morbide)come è accaduto a tante altre immagini erotiche del nostro Paese.

 

 

A leggerla oggi la sua storia somiglia a un Viale del tramonto versione spaghetti che al Sunset Boulevard con palme e piscine ha sostituito l’edilizia popolare di Ladispoli, uno dei tanti luoghi di vacanza del boom – sorti intorno alla capitale – per famiglie, le stesse di mariti e figli che si facevano rapire (di nascosto) dalla seduzione della Malizia, divenuto negli anni un quartiere dormitorio della metropoli allargata di immigrazione dell’est.

 
Sarebbe forse piaciuta a R.W.Fassbinder la parabola di questa Veronica Voss massacrata dagli scandali mediatici, dai processi, dalle accuse di spaccio di cocaina, dalla galera, tutto smentito dopo ma con quel ritardo che basta per essere condannati fino a impazzire. E dalle chirurgie estetiche a buon mercato che le hanno devastato il volto inseguendo il business di un ritorno, quel Malizia 2000 che cercava di ripetere l’exploit dei premi, ed è stato invece un fallimento, film tragico e crudele insieme.

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Lo sceneggiatore e scrittore Rodolfo Sonego (Il cervello di Alberto Sordi di Tatti Sanguineti) ricorda che lei, quando dopo il successo di Moglieamante in America le proposero un contratto americano rispondeva: «Non me interesa». Impensabile no?

 
Bella era bella, Laura Antonelli che dopo la guerra arriva profuga bimbetta insieme alla famiglia dall’Istria a Napoli, e poi a Roma, insegnante di educazione fisica col sogno da qualche parte in quegli anni sessanta dorati di diventare attrice. Inizia con i Caroselli, quello per la Coca Cola, e altri, qualche fotoromanzo, di lei e dei suoi occhi verdi si accorge Antonio Pietrangeli che la chiama per Il magnifico cornuto (1964) dove però non è nemmeno accreditata. La troviamo poi nel film di Riccardo Ghione, La rivoluzione sessuale e nella commedia paradossalmente antidivorzista Scusi lei, è favorevole o contrario? .

 

 

Dino Risi ne fa un’attrice comica in Sessomatto, Luigi Comencini la vuole per Mio Dio come sono caduta in basso, commedia degli equivoci tra matrimoni incestuosi e tradimenti focosi nell’assolata Sicilia, mentre Visconti la rende eroina tragica nel dannunziano L’innocente, dove diventa la nobildonna la cui colpa del tradimento viene pagata dal figlio (del peccato).

 

 

Patroni Griffi ne farà una Divina creatura, e col regista Antonelli lavora diverse volte compreso il cultissimo sadomaso a tre (gli altri due erano Florinda Bolkan e Tony Musante) La gabbia.

 
L’immagine di Laura Antonelli però rimane per sempre in sovrimpressione a quella di Angela La Barbera, la domestica di Acireale di Malizia, il film della sua vita – anche superincasso e origine di un genere. Le calzette nere assassine e il vestitino leggero entrano con prepotenza nel nostro immaginario, quasi un’ossessione come per il ragazzino, appunto, a cui dava vita Alessandro Momo, quattordicenne alle prese col romanzo di formazione sessuale di cui la donna diviene il centro ispiratore e il motore. Icona anche lui, Momo, morto tragicamente e giovanissimo una manciata di anni dopo ammazzandosi in moto.

 

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Parlando di Mio Dio … nella sua recensione Morando Morandini la definisce: «L’ottima Laura Antonelli». Perché era anche brava, quel suo corpo era un segno artistico, con l’innocenza spudorata di mettersi in gioco contro e oltre i tempi, che nessuna attrice oggi in epoca di misuratissima cura dell’immagine pubblica, anche nello scandalo, oserebbe.

 

 

Nemmeno trentenne, era il 1969, Laura Antonelli accetta il ruolo da protagonista ne La Venere in pelliccia dal libro di von Sacher-Masoch. Lo dirige Massimo Dallamano con lo peusodimo di Max Dillman, le riprese vengono bloccate dalla censura inorridita di fronte lo scandaloso gioco erotico della storia. Il film esce solo in Germania, in Italia ne viene riproposta una versione «ripulita» censurata anche questa, e solo dopo il successo di Malizia, nel ’75, esce come Le malizie di Venere ancora tagliato.

 
Due anni dopo eccola incarnare il desiderio per Pasquale Festa Campanile nel Merlo maschio, che proietta sul suo corpo come un Man Ray le ossessive fantasie maschili. È perfetto, tondo, allegramente scandaloso: la meraviglia di un sogno ancenstrale. Lei svagata, quasi a difendersi diceva di sé: «Sono sempre stata timida, non ero preparata a affrontare quella carriera, quel successo, la popolarità, l’ambiente del cinema con le sue delusioni e disillusioni». Negli anni era sparita, povera, sola, l’amico Lino Banfi aveva chiesto la Bacchelli, il sostegno per gli artisti ma lei aveva rifiutato. Quel peso era stato davvero troppo grande.