Il ’77 è stato il vero ’68 italiano. Dei partecipanti, alcuni hanno fatto anni di galera, altri sono morti di eroina, altri ancora sono diventati yuppies e questa è forse la morte peggiore.

SE VOGLIAMO ANALIZZARE
gli effetti economici del movimento del ’77, un libro non basterebbe. Figurarsi un semplice articolo. Perché, contrariamente a quanto un certo pensiero bigotto e reazionario (di destra e di sinistra) possa pensare, il movimento del ’77 non è stato solo un movimento di contestazione di un assetto sociale ed economico di potere ma è stato soprattutto un grande incubatore di innovazione sociale per il futuro, in tutte le sue manifestazioni, anche quelle più violente. E in misura maggiore del ’68.

NON E’ UN CASO CHE IL 77
si caratterizza per essere il primo movimento sociale di critica del post-fordismo e, come tale, esprime le prime forme della nuova composizione del lavoro vivo che con l’implosione della grande fabbrica iniziano a diffondersi nella produzione allargata al territorio.
In particolare due aspetti devono essere sottolineati.

IL PRIMO
ha a che fare con il termine «precarietà» ma in un’accezione assai diversa da quella (negativa) di oggi. La condizione di precarietà viene infatti vista, come «scelta di vita esistenziale», «rottura delle certezze», «destabilizzazione personale» e solo successivamente, «accettazione di un modo di vita», che comunque garantiva una qualche forma di sussistenza.

IN QUESTO CONTESTO,
la precarietà è vista ancora come opportunità di liberazione dalla gabbia del lavoro salariato, stabile e sicuro. Più che di precarietà sarebbe quindi più corretto parlare di «flessibilità». L’anelito presente nell’«autonomia sociale» di quegli anni verso un’idea di prestazione lavorativa non più soggetta alle costrizioni dettate dall’imposizione dei tempi della macchina a favore di una liberazione delle potenzialità del desiderio come scelta di autorealizzazione, tuttavia, non conduce a nessuna terra promessa.

E QUI INTERVIENE
la seconda considerazione, relativamente agli effetti di questo claim politico e sociale. L’ondata libertaria e innovativa ha creato le premesse per la svolta neo-liberista. Ovvero ha preso una direzione politica del tutto opposta a quella sperata. Né più, né meno dei movimenti anti-autoritari che in contemporanea si muovevano sulla sponda californiana degli Stati Uniti riguardo le prime sperimentazioni tecnologiche sui computer. Dal motto «Tech to the people» si è passati a creare le basi per la rivoluzione informatica rigorosamente gestita dal capitale e tutt’altro che liberatrice.

IN ITALIA,
come ricorda in modo crudo Bifo, «l’autonomia sociale si determina in neo-imprenditorialità, la comunicazione diffusa delle radio libere apre la strada all’oligopolio delle televisioni commerciali, la rottura del compromesso storico apre la strada alla modernizzazione craxiana, la critica radicale del lavoro salariato sfocia nell’offensiva padronale contro l’occupazione e nella ristrutturazione».Tuttavia, occorre sottolineare che senza il ’77 non ci sarebbe stato negli anni Ottanta e Novanta il forte sviluppo del Made in Italy, la nomea internazionale della scuola pubblicitaria italiana e lo sviluppo delle forme distrettuali di produzione che hanno modificato la nuova composizione del lavoro vivo e evidenziato il ruolo del lavoro autonomo di seconda generazione. Di fatto, le innovazioni sociali che sono stare confusamente incubate nelle rivendicazioni politiche del ’77 hanno, almeno sino all’inizio degli anni Novanta, supplito alla miopia di una classe imprenditoriale, intrisa di conservatorismo, assistenzialismo, bigottismo culturale, incapace di cogliere le opportunità del nuovo paradigma tecnologico informatico. Da questo punto di vista, l’enorme potenzialità sovversiva e immaginifica del ’77 è stata del tutto sprecata e le conseguenze ce le portiamo appresso ancora oggi.

MA NON TUTTO E’ ANDATO PERDUTO. Se il ’68 è stato fondamentale per modernizzare un Italia ancora feudale sul piano dei diritti civili (divorzio, aborto, riforma sanitaria, liberalizzazione degli studi, abolizione di manicomi, ecc.), il ’77 ha favorito la diffusione di alcune parole d’ordine che oggi rivestono un’elevata attualità. Facciamo riferimento in particolare (oltre a creatività, dissacrazione, disobbedienza, differenza, oggi tutte interne alla logica di valorizzazione del capitalismo bio-cognitivo) al tema del reddito di base e della cooperazione sociale.

IL REDDITO DI BASE INCONDIZIONATO
(che va oltre al salario garantito) ha i suoi prodromi proprio nella critica alla fabbrica tayloristica e la sperimentazione di forme di autorganizzazione sociale e produttiva basate sulla operazione sociale (si pensi alla parabola dei centri sociali e alla recenti pratiche di welfare autogestito dal basso) nasce proprio dall’anelito di sfuggire alla crescente mercificazione capitalistica della vita.

FORSE NON E’ UN CASO
che uno degli slogan più emblematici del ’77 abbia più valore oggi di ieri: lavoro zero, reddito intero, tutta la produzione all’automazione.