All’assemblea degli azionisti di Unicredit, in programma oggi a Milano nel cuore del distretto finanziario, si parlerà anche di cambiamenti climatici.
Ci saranno infatti azionisti critici e attivisti da varie parti d’Europa, in rappresentanza delle reti BankTrack e Europe Beyond Coal, di Greenpeace e Re:Common. Proprio quest’ultima con l’occasione lancia la sua ultima pubblicazione «Un Paese di Cenere – le responsabilità italiane nella devastante corsa al carbone in Turchia».

Oltre a essere l’unica grande banca europea a non avere ancora alcuna policy di esclusione per i finanziamenti diretti ai progetti a carbone, Unicredit è anche l’istituto di credito straniero più attivo nel business della polvere nera turca. Nel 2014, attraverso la sua controllata turca Yapi Kredi e il suo partner Koc financial Services ha concesso due prestiti di 417 milioni di dollari ciascuno alle società turche Limak e IC Ictas. I prestiti erano destinati all’acquisizione delle centrali a carbone di Yenikoy e Kemarkoy nella regione di Mugla (nord-ovest della Turchia), per una capacità complessiva di 1.050 Mw. Negli anni successivi Unicredit ha ulteriormente sostenuto Limak con prestiti per 135 milioni di dollari. I due impianti sono stati esentati dalla normativa ambientale e hanno causato gravi impatti sulla salute umana, sull’agricoltura e sull’ambiente. La miniera di lignite Milas-Sekkoy, che alimenta i due impianti, è in fase di espansione e 21 villaggi sono a rischio di reinsediamento.

Oltre a Yenikoy e Kemarkoy, nella regione di Mugla c’è una terza centrale con annessa immensa miniera a cielo aperto: Yatagan. Queste tre – su un totale di 26 in tutta la Turchia – dal 1983 sono responsabili dell’emissione di 9,5 milioni di tonnellate di anidride solforosa, 890 mila tonnellate di ossido di azoto, 65 mila tonnellate di polveri sottili, 28 mila kg di mercurio (scaricati nel Mediterraneo) e 360 milioni di tonnellate di CO2.

Secondo un rapporto stilato da Climate Action Network Europe, da un punto di vista sanitario sono state registrate in tre decenni circa 45 mila morti premature, il ricovero di circa 46 mila persone dovuto a problemi respiratori e malattie cardiovascolari e la perdita di circa 12 milioni di giorni di lavoro.

In questo territorio, che ricorda in tutto e per tutto il nostro Cilento, sono tanti gli ulivi della pregiata qualità Memecik a «soffrire» gli effetti nefasti del carbone, mentre non si coltiva più il tabacco. Una produzione che è stata fatta morire, tagliando sussidi e aiuti, per far sì che i proprietari terrieri vendessero le terre per far spazio alle miniere. Scontato, allora, che nei villaggi rimangano quasi esclusivamente gli anziani, perché i giovani scappano a cercar fortuna altrove.
Sull’altare del carbone oltre alla natura e agli esseri umani si sta sacrificando anche la storia, di cui è ricchissima quella parte di Turchia, l’antica Caria, che visse i suoi fasti tra l’undicesimo e il sesto secolo avanti Cristo, ma i cui primi insediamenti si perdono nella notte dei tempi.

Nel raggio di una ventina di chilometri dalla centrale di Yatagan – la più grande e inquinante tra le tre – ci sono siti archeologici di rara bellezza ed estensione, che farebbero la fortuna di qualsiasi soprintendenza e ufficio del turismo. Ma che invece sembrano abbandonati.

Come racconta nel rapporto l’autore, il giornalista Dino Buonaiuto, a Lagina c’è un minuscolo baracchino che vende pubblicazioni in turco e in inglese, ma nessuna che racconti la storia di quel luogo. Eppure ci sarebbe tanto da narrare, a partire dai resti del tempio, datato secondo secolo avanti Cristo, dedicato a Ecate, la dea degli inferi.

Anche vicino a Yenikoy e Kemarkoy le testimonianze del passato si sprecano, colpevolmente ignorate anche nel villaggio di mare di Oren, dove il turismo è solo turco perché in quel tratto di Mediterraneo si scaricano le acque reflue della centrale di Kemerkoy.

Ora l’impianto di Yatagan è nelle mani della Bereket Enerji I.C., mentre quelli di Yenikoy e Kemerkoy sono di competenza del consorzio IC Ictas-Limak. Imprese private subentrate alla società pubblica Euas, che è ancora la principale società produttrice di energia nel paese, soprattutto attraverso gli impianti idroelettrici e di gas naturale. In seguito alle privatizzazioni, però, negli ultimi sei anni la sua produzione è calata del 50 per cento.

A fare la differenza nel sistema-Turchia rimangono le numerose garanzie del governo a favore delle società private. In particolare, attraverso la Euas è possibile tenere i prezzi dell’energia elettrica alquanto bassi, non riflettendo così i costi reali.

Ma recentemente il Parlamento turco ha detto no al prolungamento delle esenzioni ambientali per gli impianti. Ciò vuol dire che le società dovranno ammodernarli chiedendo nuovi prestiti. Se Unicredit si dovesse finalmente dotare di una policy anti-carbone, il primo passo sarebbe dire no a nuovi prestiti per la devastazione della Turchia.