Com’è possibile che «il mondo a testa in giù» alla fine riesca sempre a raddrizzarsi, a tornare diritto? Perché alla rivoluzione segue sempre la reazione, come le stagioni all’inferno?

INSURREZIONE, dal latino insurrectio, è il termine utilizzato dagli storici per etichettare le rivoluzioni fallite, i movimenti che non seguono la parabola prevista, la traiettoria approvata consensualmente: rivoluzione, reazione, tradimento, fondazione di uno Stato più forte e ancor più repressivo. La ruota gira, la storia torna sempre e sempre alla sua forma più elevata: schiacciare con pesanti stivali da SS la faccia dell’umanità.

L’in-su-rrezione, evitando di conformarsi a questa parabola, indica la possibilità di un movimento fuori e oltre la spirale hegeliana di quel «progresso» che, sotto sotto, altro non è che un circolo vizioso. Surgere, alzarsi, insurgere, sollevarsi. Operazione autoreferenziale. E tanti saluti alla disgraziata parodia della ruota karmica, alla futilità storica della rivoluzione. Il grido «rivoluzione!» è passato da tocsin, campanello d’allarme, a toxin, tossina, una perniciosa trappola fatale e pseudognostica, un incubo nel quale abbiamo un bel da lottare, non riusciremo comunque a sfuggire al malvagio Eone, allo Stato incubus, uno Stato dopo l’altro, ogni «paradiso» governato da un altro angelo infernale.

SE LA STORIA è «Tempo», come pretende di essere, allora il sollevamento è un momento che scaturisce dal Tempo, e viola la «legge» della Storia. Se lo Stato è Storia, come pretende di essere, allora l’insurrezione è il momento proibito, un’imperdonabile negazione della dialettica, che s’inerpica sul palo per sbucare dal buco in cima alla yurta, una manovra tipica dello sciamano eseguita a un’«angolazione impossibile» nel nostro universo. La Storia sostiene che la Rivoluzione arriva alla «permanenza», o per lo meno alla durata, mentre l’insurrezione è «temporanea». In questo senso la seconda è come un’«esperienza estrema», tutto l’opposto rispetto allo standard della coscienza e dell’esperienza «normali». Come le feste, le insurrezioni non possono essere quotidiane, altrimenti non sarebbero più «a-normali». Tuttavia, questi momenti intensi danno forma e significato alla totalità della vita. Lo sciamano torna di sotto (non puoi restare per sempre sul tetto), però le cose sono cambiate, hanno avuto luogo cambiamenti e integrazioni, ha fatto la differenza.

Potreste obiettare che è un consiglio dettato dalla disperazione. Che ne è del sogno anarchico dello stato senza Stato, della Comune, della zona autonoma con una durata, della società libera, della cultura libera? Dobbiamo rinunciare a quella speranza in cambio di qualche acte gratuit esistenzialista? Lo scopo è cambiare il mondo, non cambiare la coscienza.

È UNA CRITICA GIUSTA. Però vorrei fare due precisazioni: primo, finora la rivoluzione non è riuscita a realizzare questo sogno. La visione prende vita nel momento della rivolta, ma appena la «Rivoluzione» trionfa e torna lo Stato il sogno e l’ideale sono già traditi. Non rinuncio alla speranza o anche all’attesa di un cambiamento, però diffido della parola Rivoluzione. Seconda precisazione: anche sostituendo l’approccio rivoluzionario con il concetto di insurrezione che fiorisce spontaneamente nella cultura anarchica, la nostra specifica situazione storica non è propizia a una sì vasta impresa. Dallo scontro frontale con lo Stato terminale, con lo Stato dell’informazione delle megaimprese, con l’Impero dello Spettacolo e della Simulazione, non sortirebbe assolutamente nulla, a parte un inutile martirio. I suoi cannoni sono tutti puntati contro di noi, mentre le nostre misere armi non trovano nulla a cui mirare se non un’isteresi, una rigida vacuità, uno Spettro capace di soffocare qualsiasi scintilla negli ectoplasmi di informazione, una società della resa governata dall’immagine dello Sbirro e dall’occhio onniassorbente dello schermo televisivo.

Per farla breve, non stiamo cercando di spacciare la taz come un fine in sé concluso che sostituisca le altre forme di organizzazione, le tattiche e gli obiettivi. La raccomandiamo perché può garantire la qualità di arricchimento propria della sollevazione senza portare per forza alla violenza e al martirio. La taz è come un’insurrezione che non si scontra direttamente con lo Stato, un’operazione guerrigliera che libera un’area (di terra, di tempo, di immaginario), poi svanisce per riformarsi altrove, in un altro tempo, prima che lo Stato possa schiacciarla. Dato che allo Stato interessa soprattutto la Simulazione, non la sostanza, la taz può «occupare» queste zone clandestinamente per praticare in relativa pace per un tot le proprie attività goderecce. Forse certe piccole taz sono durate vite intere perché sono passate inosservate, come le enclave degli hillbilly sudisti, non avendo mai incrociato lo Spettacolo, non essendosi mai arrischiate al di fuori della vita reale che rimane invisibile agli agenti della Simulazione.

Babilonia scambia per realtà le proprie astrazioni, ed è esattamente dentro questo margine di errore che può nascere la taz. La sua realizzazione può prevedere tattiche violente e difensive, ma la sua massima forza risiede nell’invisibilità: lo Stato non la riconosce perché la Storia non possiede una formula per definirla. Appena la taz è nominata (rappresentata, mediata), deve sparire, e sparirà per forza, lasciandosi alle spalle un guscio vuoto, ma solo per rispuntare altrove, ancora una volta invisibile perché indefinibile nei termini dello Spettacolo. Pertanto la taz è una tattica perfetta per un’epoca in cui lo Stato è onnipresente e onnipotente, e al tempo stesso costellato di crepe e vuoti. Ed essendo la taz un microcosmo di quel «sogno anarchico» di una cultura libera, non mi viene in mente una tattica migliore per avvicinarci a quell’obiettivo mentre al tempo stesso ne vivi alcuni vantaggi qui e ora.

PER RIASSUMERE, il realismo non esige soltanto che cessiamo di aspettare la «Rivoluzione» ma anche che smettiamo di volerla. «Insurrezione», sì, ogni volta che è possibile e anche a rischio di violenze. Il sussulto dello Stato Simulato sarà «spettacolare», ma nella maggior parte dei casi la tattica migliore e più radicale consisterà nel rifiutare le violenze spettacolari, nel ritirarsi dall’area della simulazione, nello scomparire.

La taz è un accampamento di ontologi della guerriglia, colpisci e scappa, mordi e fuggi. Mantieni in movimento l’intera tribù, anche se si tratta solo di dati nella Rete. La taz deve essere capace di difendersi, ma sia l’«attacco» che la «difesa» dovrebbero, se possibile, evitare la violenza dello Stato, che non è più una violenza significativa. L’attacco va portato alle strutture di controllo, in pratica alle idee; la difesa sono l’«invisibilità», un’arte marziale, e l’«invulnerabilità», un’arte «occulta» all’interno delle arti marziali. La «macchina da guerra nomade» conquista senza farsi notare e procede oltre, prima che la mappa possa essere aggiornata. Quanto al futuro… soltanto l’autonomo può progettare, organizzare, creare l’autonomia. Un’operazione bootstrap, in cui ci si solleva da soli, in cui si conta sulle proprie forze. La prima tappa è una sorta di satori, prendere coscienza del fatto che la taz comincia con una semplice presa di coscienza.

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Manuale poetico tra sufi e anarchia

«Dobbiamo (noi abitanti nel presente), aspettare che l’intero pianeta venga liberato prima che anche uno solo di noi possa affermare di aver conosciuto la libertà?». Fin dalle prime pagine, l’urgenza che si respira in «T.A.Z.», il libro-manifesto di Hakim Bey – al secolo Peter Lamborn Wilson, saggista, scrittore e poeta americano che nei suoi molti viaggi in Oriente si è avvicinato al pensiero sufi – che Shake ripropone in una nuova edizione 27 anni dopo la prima pubblicazione nel nostro Paese (traduzione di Giancarlo Carlotti, pp. 220, euro 12) è quella di aprire spazi di libertà nell’immediato, di sottrarre menti e luoghi del presente al dominio e al controllo. Lungo un asse tematico, che come ricordava su queste pagine Benedetto Vecchi nel 1993 recensendo il libro, si articola intorno ai tre termini di «comunità, rete e sollevazione», e che incrocia la spiritualità e il cyberpunk, la storia dell’anarchismo, la lezione dei pirati e le suggestioni delle avanguardie artistiche, «T.A.Z.» costituisce a un tempo una straordinaria sfida intellettuale e un agile manuale per la sovversione poetica del presente.