Profumo intenso di alloro in Respirare l’ombra (1999) di Giuseppe Penone, di agrumi in Lemon Project 03 (1997/2020) di Satoshi Hirose, dell’inebriante combinazione di pepe nero, cumino, zenzero, chiodi di garofano, curcuma… nelle fluttuanti sculture-installazioni di nylon e cotone di Ernesto Neto o in Synesthesia, l’opera del duo Celia-Yunior che in occasione della Biennale di Kochi-Muziris 2019 vedeva l’impiego delle tipiche spezie del Kerala: l’arte contemporanea è un’esperienza da vivere con tutti i sensi, a tutte le latitudini.

Nuovi percorsi che coinvolgono l’osservatore in uno sfavillìo di potenziale atemporalità, seducente e struggente malinconia, giocosa esaltazione. Un invito a praticare la bellezza (mai fine a se stessa) attraverso un’immersione totalizzante che non può non coinvolgere l’odorato. L’approccio psicologico è garantito, con una strizzatina d’occhio alla memoria involontaria come suggerisce Proust con le sue madeleine dalla morbida fragranza di burro e zucchero e quel loro sapore d’altri tempi che trova un’affinità elettiva nei calendarietti profumati che barbieri e droghieri donavano ai loro clienti alla fine dell’anno.

Il déco degli odori
In Italia la stagione più felice di questi piccoli tesori di carta, veicolo di pubblicità ed effluvi, è quella che dall’art déco arriva al dopoguerra, quando anche noti artisti e illustratori come Depero e Dudovich, Codognato, Romoli, Brunelleschi, Carboni, Nanni e molti altri lasciarono traccia della loro creatività in quelle grafiche ammiccanti che riflettono il gusto dell’epoca, tra mitologia e letteratura: l’Egitto misterioso, rose e farfalle variopinte, bambini paffuti.
Il profumo, o meglio la fragranza – nei suoi picchi d’intensità, quindi anche pungente e non necessariamente gradevole (non solo quelle due gocce di Chanel n. 5, unico «indumento» indossato da Marilyn Monroe quando andava a dormire) – accompagna ossessivamente la storia dell’uomo nel suo percorso individuale e collettivo, come ci ricorda la letteratura da L’odore dell’India di Pasolini al romanzo Il profumo di Süskind, passando per l’odore della paura a cui accenna Murakami nelle pagine di 1Q84 o del rimpianto per il non ritorno di Bruce Chatwin che intreccia sfumature cromatiche e trame dell’olfatto in tutti i suoi libri, in particolare nel saggio Lamento per l’Afghanistan dove le sue parole suonano come una drammatica premonizione.

La morte vaporizzata
C’è anche la canzone L’odore di Giorgio Gaber che parla di «un odore che non si distrugge con una lavata. Ci vorrebbe un programma in risciaquo. La schiuma frenata!»: l’odore del proprio corpo. Ma torniamo alle arti visive e alla sfida degli artisti contemporanei nel trattare una sostanza così effimera, intangibile. La messicana Teresa Margolles cerca di rappresentare l’odore della morte nella sua installazione Aire (Air) (2003). Il pubblico respira quell’aria di morte violenta vaporizzata (in una variante dell’opera ci sono le bolle di sapone), diffusa nello spazio espositivo attraverso dispositivi che filtrano l’acqua con cui viene reidratata la tela essiccata, usata per avvolgere il corpo delle persone assassinate, contenente anche particelle di terra, polvere, sangue, pelle.

Non c’è niente di macabro per Margolles che fa della sua arte uno strumento di denuncia sociale e politica. Per l’artista è fondamentale l’elemento dell’acqua che permette al pubblico di assorbire il significato più profondo dell’opera, perché il dolore e la sete di giustizia non finiscano nell’indifferenza e nell’oblio, considerando in particolare la drammatica statistica di femminicidi che vengono perpetrati nel suo paese.

Intimi ritratti
Diversamente provocatorio è il lavoro di Clara Ursitti che nella sua ricerca cita le tracce sensoriali dell’inconscio di cui parla Jacques Rancière nel saggio La partizione del sensibile. Ursitti indaga anche l’aspetto più intimo del suo essere donna, traducendo in profumo gli umori e le secrezioni della vagina tra ormoni e mestruazioni. In un’opera come Eau Claire (1992/1993), che si presenta nella sua preziosa bottiglietta di vetro soffiato a mano, l’artista canadese, scozzese d’adozione, «maneggia» i suoi effluvi (in altre opere quelli altrui) come se fossero autoritratti fotografici, lavorando su un concetto di identità che si affranca dai tabù olfattivi, inevitabile riflesso di quelli sociali.

Non è una vera e propria catalogazione come quella di Sissel Tolaas, artista norvegese di base a Berlino che ha portato nella sua arte le conoscenze chimiche e matematiche. È l’autrice dello Smell Memory Kit che nel 2004 ha dato vita al laboratorio Smell Research Lab Berlin con cui ha firmato i suoi progetti di studio di sociologia degli odori, tra cui City SmellScape con cui ha analizzato la definizione olfattiva di città e metropoli di tutto il mondo. Nel 2005 ha presentato alla Biennale di Tirana il progetto Sweat Fear | Fear Sweat in cui ha incapsulato le molecole del sudore di venti uomini accomunati dalla fobia per gli altri corpi: odori che diventano lo strumento per ridefinire il dialogo tra il sé e l’altro.

La paura è un tema affrontato anche dall’artista concettuale coreana Anicka Yi in You Can Call Me F che s’ispira da una parte al film Contagion (2011) – purtroppo tornato di grande attualità di questi tempi – e dall’altra alla poesia Boundary Issues di John Ashbery e un po’ anche all’erotismo duchampiano nella rappresentazione del corpo femminile. Dando all’odore una forma tridimensionale, Anicka Yi esplora altri tipi di paura che serpeggiano nella società contemporanea ancora tenacemente maschilista: quella nei confronti del femminile e dell’ignoto.

You Can Call Me F (2015) è per l’artista il territorio dell’emarginazione delle donne, molto simile a quello dell’olfatto che è tra i cinque sensi quello più penalizzato dall’arte contemporanea. Come per le analisi citologiche e microbiologiche ha raccolto i campioni di un centinaio di donne tra le sue conoscenze personali – artiste, scrittrici, curatrici, storiche dell’arte – che sono stati elaborati in laboratorio e sintetizzati in un unico «batterio».

Il profumo dei soldi
Che dire, poi, dell’odore dei soldi? Sophie Calle con la collaborazione dell’artista e profumiere Francis Kurkdjian hanno creato l’opera L’Odeur de l’argent presentata nel 2003 alla Fondation Cartier pour l’art contemporain di Parigi. L’ispirazione nasceva da una comunissima banconota da un dollaro americano con quel suo odore caratteristico in cui si mischia l’inchiostro e il sentore un po’ animalesco di tutte le mani in cui è passata per quattro anni.

Francis Kurkdjian ha ricostruito invece lo spazio intimo dell’epoca di Maria Antonietta con il profumo Sillage de la Reine, dedicato alla regina francese e prodotto in edizione limitata dallo Chateau de Versailles.

È a Versailles che si è sviluppata l’arte profumiera grazie anche al contributo di Jean-Louis Fargeon, ambizioso creatore di profumi che conquistò la stima e la complicità di Maria Antonietta confezionando per lei un paio di guanti di capretto trattati con una miscela di essenza di violette, giacinti, garofani, muschio e giunchiglia. Kurkdjian offre un altro tassello nel puzzle della storia quando, sulle orme del Re Sole (soprannominato anche «dolce profumo», benché sembra che abbia fatto solo tre bagni in tutta la sua vita) realizza l’installazione Versailles Orangerie (2006) facendo sprizzare profumo di fiori d’arancio dalla fontana dell’Orangerie. L’odore del potere maschera il suo stesso miasma con le fragranze più seducenti, si sa.