Quando è iniziata l’invasione russa in Ucraina, il 24 febbraio, Dmytro Sukholytkyy-Sobchhuk stava lavorando alla post-produzione di Pamfir, il suo film d’esordio presentato alla Quinzaine des Realisateurs. Pochi giorni dopo, mentre appena fuori da Kyiv le incursioni delle truppe speciali russe si moltiplicavano insieme al coproduttore (francese) hanno deciso di portare il materiale altrove. «Il 26 avevo il biglietto per la Francia la guerra era appena iniziata. Questa è la seconda volta che esco dall’Ucraina, è una cosa anomala perché agli uomini della mia età non è permesso. Il contrasto è incredibile, mentre cammino per Cannes mi sembra tutto strano, credo che ogni ucraino sta vivendo oggi un trauma molto forte» dice Dmytro Sukholytkyy-Sobchhuk. Ci incontriamo sulla Plage de la Quinzaine, 38 anni, studi di filosofia e di architettura prima di quelli di cinema, grandi occhiali da sole, la spilla della bandiera ucraina sulla giacca Sukholytkyy-Sobchhuk che tra qualche giorno rientrerà nella capitale ucraina dove abita, non si stanca di rispondere alle domande sulla guerra, anzi nei suoi toni si sente la necessità di discuterne, di parlarne, di comunicare il più possibile cosa sta vivendo il suo Paese : «A volte ho l’impressione che la maggior parte della gente, nonostante la solidarietà che ci viene manifestata non si rende conto di quello che succede in Ucraina. Al Festival di Cannes non hanno accreditato i giornalisti russi? Meglio, anche se l’altro giorno ne ho visto uno che conosco in sala. Credo che tutti i paesi dovrebbero tagliare i rapporti con la Russia in modo ancora più netto e in ogni campo, culturale, politico, economico; qualsiasi persona col passaporto russo dovrebbe essere dichiarata non grata».

Dmytro Sukholytkyy-Sobchuk
Questa è la seconda volta che esco dall’Ucraina, agli uomini della mia età normalmente non è permesso. Mentre cammino per Cannes, tutto mi sembra strano
Pamfir è la storia di un ritorno, il protagonista rientra al villaggio in una zona rurale sul confine con la Romania – è la regione di Cernivci – dove vivono la moglie e il figlio, i suoi genitori e il fratello minore. Lui è emigrato in Polonia per lavorare – si guadagna molto di più – e soprattutto per sottrarsi a un passato nel contrabbando, attività che coinvolge un po’ tutti perché è il solo mezzo di guadagno. Presto ci sarà il carnevale con la Malanka, una festa tradizionale nella quale ogni uomo indossa un costume e una maschera, la moglie devotissima si è fatta promettere che lui non farà più contrabbando, però accade qualcosa e Pamfir finisce di nuovo intrappolato in quelle «regole» di violenza che dominano tra mafia, polizia compiacente, una chiesa opaca.

Una scena di «Pamfir»

Eroe tragico Pamfir (Oleksandr Yatsentyuk) lotterà per una «liberazione» che prima di lui riguarda le giovani generazioni come suo figlio, e per un futuro oltre confine, verso l’Europa, desiderio «sintonizzato» con le richieste del Paese già prima della guerra. Di cui anche se scritto prima porta in sé i segni nei conflitti del protagonista e in quelli di una realtà collettiva dominata da un boss che la controlla, che porta in sé miseria e corruzione.

«Pamfir» è stato scritto prima dell’invasione russa eppure si avverte un’eco costante di conflitti anche in quella comunità a cominciare dai riferimenti al Donbass.

Dal 24 febbraio la guerra è stata dichiarata apertamente, e adesso il nostro compito è quello di proteggere il nostro Paese contro gli invasori. Ma tutto è cominciato anni fa, la primavera del 2014, quando i russi hanno inviato i reparti speciali nel Donbass. Quel conflitto non è mai finito, non c’è stata nessuna pace da parte dei separatisti che hanno continuato a tenere nel mirino città come Mariupol, Kherson … Dopo l’occupazione dei russi tutto il mondo ha visto le atrocità che vi sono state commesse: omicidi, torture, campi di concentramento nei quali vengono richiusi i cittadini, deportazioni. È assurdo pensare che migliaia e migliaia di persone vengono forzate a partire verso luoghi sconosciuti mentre i militari russi continuano a compiere brutalità. Ecco perché il nostro esercito combatte, e nessuno nel mondo deve accettare che siano commessi crimini come a Bucha contro cittadini indifesi.

L’Europa intesa come Unione europea è un riferimento costante nei discorsi dei personaggi: quando i ragazzi attraversano il confine per trasportare la merce di contrabbando dicono che «l’aria è diversa». Zelensky, che aveva chiesto entrare nella Ue prima della guerra, cerca l’adesione.

Ho girato in una zona nei Carpazi, altre riprese sono sul confine con la Romania che è parte dell’Unione europea. Il fatto di guardare alla Ue è una aspirazione alla democrazia, e al rispetto dell’indipendenza garantito a ogni paese che ne fa parte. Dall’altra parte c’è invece un regime che vuole portarci via interi territori, che ci occupa, che uccide. L’Europa significa la libertà.

La realtà che racconta il film è molto cupa: c’è un padrino e ci sono intrecci che impediscono la sopravvivenza.

La mafia, la chiesa, la polizia sono elementi che rimandano a una rappresentazione del potere, a a certi modelli politici che lo utilizzano. Per questo era importante focalizzarsi sui due antagonisti: da una parte il capo, Oreste, e dall’altra Pamfir, il quale è andato via di lì per poter avere una vita decente. Quel sistema infatti non porta da nessuna parte. Alla fine Pamfir lascia il boss nel buio, e la sua azione è come una specie di reloading: e vorrei usare oggi le sue parole quando dice che vuole avere dei poteri per distruggere chiunque viene nella tua terra per invaderla e portarla via.

Come hai lavorato sulla messinscena? Ci sono scelte di regia molto precise, sei sempre vicino al protagonista, usi molta fisicità fino all’esplosione del rito in maschera finale.

La Malanka è una festa tradizionale rumena, si celebra in gennaio, ogni uomo indossa una maschera che gli permette di dichiarare un ruolo sociale definito. Ogni scelta di regia è stata millimetrata, non volevo che nulla fosse casuale anche se ho lasciato delle epifanie accadute sul set – il passaggio di una farfalla per esempio. Abbiamo provato molto coi personaggi, volevo che le scelte formali dessero la sensazione a chi guarda di essere sempre col protagonista, di condividere le sue emozioni. Ogni sequenza è come un tunnel che entra in un altro, un labirinto nel quale trovi diversi angoli, linee, giri un po’ come nel palazzo del Minotauro.