Tra le innumerevoli suggestioni dell’edizione appena conclusa del PerSo – Perugia Social Film Festival – rassegna internazionale di cinema documentario sociale, si staglia, con inedita potenza, il lungometraggio del cineasta brasiliano, ma portoghese d’adozione, Sèrgio Tréfaut, anche presidente di giura, che con il suo Raiva, presentato in anteprima italiana, si immerge nel sud del Portogallo del 1950, ripercorrendo le azioni del brigante e contrabbandiere Palma, un fuorilegge che si è macchiato della morte del padrone-proprietario terriero. Tréfaut affronta la Storia, de-storicizzandola (barthesianamente), come un problema di organizzazione di significati, delle sue strategie enunciative e dei suoi “effetti di realtà” ed è in questo anelito astratto e anti-realista che colloca la sua macchina da presa lavorando sull’analisi sociale, rifiutando la documentazione e l’accuratezza delle fonti a vantaggio di una propria investigazione del processo storico. La Storia dunque non esiste, e non si legge, se non negli occhi e nelle coscienze altrui, sparigliando le coordinate spazio-temporali attraverso tre diversi gradi di rarefazione: l’astrazione del paesaggio rurale, l’utilizzo (e la successiva spoliazione) di segni tipici dell’epoca e la dilatazione temporale delle inquadrature. In Raiva il processo dialettico è fluido, e così deve essere percepito, e invece di presentarlo come collisione di inquadrature, Tréfaut lo sviluppa attraverso il movimento delle forze in campo in un montaggio interno che trasfigura la realtà dove gli eventi non vengono dunque percepiti come fatto ma come progresso, come una serie simultanea di fatti sociali e socializzanti determinati da una prospettiva rivoluzionaria.

Raiva è tratto da un romanzo di Manuel da Fonseca degli anni ’50 il quale aveva recuperato un episodio di cronaca di 20 anni prima cambiando però la prospettiva degli eventi. Su quale versione ti sei basato?

All’inizio mi sono appassionato al libro Seara de Vento di Manuel da Fonseca, un classico della letteratura portoghese. Aveva una scrittura secca e un’ambientazione western: il vento, l’aridità del paesaggio dell’Alentejo, nel Sud del Portogallo, un eroe di poche parole, ma aveva anche una dimensione epica e un certo romanticismo politico. Quando leggevo il libro vedevo subito, nella mia testa, il volto dell’attrice Isabel Ruth, musa del Cinema Novo portoghese, nel ruolo della vecchia contadina. Seara de Vento è un libro che ha mitizzato un’episodio di cronaca criminale, trasformando un povero contadino che aveva ucciso gente e il capo della polizia in un eroe e in un martire e la mia versione è chiaramente nata dopo la fine del sogno ideologico comunista. Ci sono la fame e l’ingiustizia, la necessità di cambiare, ma non le promesse di un romanticismo politico. Per me, un morto è un morto, non è un martire o un eroe. La tematica del film è invece sull’eterna ripetizione dei cicli di abuso e di ingiustizia. Quelli che hanno il potere economico sono quelli che hanno il potere sulla politica, sulla Chiesa e sugli uomini. Nella prima metà del secolo XX in Alentejo, possedere dei terreni significava possedere gli uomini, in una forma quasi medievale.

Raiva è il tuo secondo film di finzione ma non è la prima volta che la tua macchina da presa si colloca nel passato, specialmente politico e sociale. Lo scorso anno infatti, avevi vinto proprio qui a Perugia con Treblinka, dedicato alle memorie dei sopravvissuti al campo di sterminio nazista. Qual è il tuo approccio alla Storia?

Quando faccio un film su un momento storico c’è la voglia di “essere” nel presente, di offrire al pubblico qualcosa di meno abituale, meno di moda, qualcosa che può servire per perturbare, per viaggiare, o per vedere da un’altro punto di vista. Riguardo alla finzione, io non cerco a fare niente che assomiglia al cinema contemporaneo, neanche storico. Le ricostruzioni storiche mi annoiano a morte. Cerco di lavorare con una libertà formale che si avvicina, forse, più al teatro.

Raiva ha una precisione, da un punto di vista filmico, strabiliante ma al tempo stesso le tue immagini regalano un grande senso di libertà. Questa doppia natura è presente già in sceneggiatura?

Il film è lontanissimo del primo copione. Ho cercato tute le opportunità possibili per raccontare questa storia senza spiegare, tagliando dialoghi che dicono quello che lo spettatore dovrebbe capire o pensare. Mi sono quasi avvicinato al cinema muto, le immagini e i volti dicono già quasi tutto. Questo processo di trasformazione è avvenuto a poco a poco: diverse versioni del copione, tagli durante le riprese, riscrittura del film nel montaggio, varie versioni finali… Ho sempre cercato di fare di meno, di togliere. Dall’altra parte la libertà e il senso del film si trova nei posti dove si gira, nelle forma delle inquadrature e nel lavoro con gli attori. Il protagonista, Hugo Bentes non è un attore professionista, l’ho scelto, e preparato, certo del fatto che avrebbe fatto meglio di qualunque altro. Nel film poi, ci sono alcuni dei più grandi attore di cinema portoghese che si sono reinventati per questi ruoli. Specialmente Leonor Silveira. Lei è sempre stata un’aristocratica nei film di Manoel de Oliveira, la musa, la “signora delle camelie”. Qui, per la prima volta, è una povera contadina. Ci sono anche Luis Miguel Cintra, Diogo Doria, Sergi Lopez. Mettere tutta questa gente insieme e trovare un’equilibrio estetico e interpretativo è stata una sfida enorme ma solo così trovo trovo la mia libertà.

Hai girato in un bianco e nero quasi da cinema muto…

Sì, La terra di Dovzhenko, è stato un riferimento fondamentale ma ho pensato anche a Vidas secas di Nelson Pereira dos Santos e ad Almumia di Shadi Abdel Salam, anche se è a colori. Ma è vero che la forma un po’ concettuale degli scenari e il vuoto delle inquadrature è, forse, di derivazione più dreyeriana. Il direttore di fotografia, il maestro Acacio de Almeida, ha fatto un lavoro gigantesco.

Nel tuo passato c’è anche la fondazione e la direzione di un festival importante come DocLisboa. Come sei riuscito a coniugare il tuo lavoro di filmmaker con quello di direttore/programmatore?

Quando ho creato Doclisboa, nel 2004, con un gruppo di amichi dell’associazione portoghese del documentario, Apordoc, c’era la sfida di dare al documentario una cittadinanza, un riconoscimento, una visibilità. Sono contento di aver partecipato attivamente a questo processo, sia con Doclisboa, sia con Apordoc, sia con i miei film. Lisboetas per esempio, il mio primo documentario a uscire nelle sale, è rimasto per mesi nei cinema con un pubblico sempre maggiore, molto più numeroso che per il cinema indipendente. Al tempo stesso era un film che “partecipava” alla discussione per cambiare la legge sulla nazionalità degli immigrati. Il cinema che faccio esiste sempre per una ragione o per una voglia di provocare, di partecipare, di discutere.

 

 

I PREMI DEL FESTIVAL

Il premio più importante della IV edizione del PerSo – Perugia Social Film Festival, rassegna internazionale di cinema documentario sociale, va a Hale county this morning, this evening di Ramell Ross. Il film, che si è aggiudicato un premio anche al Sundance, è stato inserito da Variety e dal New York Times tra i 10 documentari da vedere del 2018 ed è il racconto denso e coinvolgente di un gruppo di ragazzi afroamericani fra i loro sogni e le loro speranze, che lottano per un miglioramento della loro condizione sociale. Menzione speciale a Rever sous le capitalisme di Sophie Bruneau per la capacità di intrecciare uno sguardo critico sul mondo capitalista del lavoro con un racconto sorprendente sul linguaggio simbolico dei sogni, lavoro profondo ed emozionante in cui un dispositivo visuale pittorico rende ancora più potente una testimonianza umana tesa ed inquietante. Il premio del pubblico invece al noto attore e regista spagnolo, Premio Goya 2018, Gustavo Salmeron con Muchos hijos, un mono y un castillo (film che sarà distribuito in Italia da Exit media)