Nei giorni in cui il mondo parla del pallone spedito da Mario Balotelli nella curva del Verona per reazione ai fischi e ululati xenofobi nei suoi confronti, giunge a proposito la lettura del Diario di un razzista di Raffaele Mantegazza (Kanaga edizioni, pp. 72, euro 11,90). L’autore, docente di pedagogia interculturale all’università Bicocca di Milano, indossa i panni di un giovane di buona famiglia, che si avvicina a un gruppo neofascista e pian piano ne assume le parole d’ordine, in opposizione al linguaggio «buonista» dei genitori di sinistra.

L’ESTENSORE DEL DIARIO, fin da piccolo, respira l’antifascismo familiare, ma lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, lo spinge a incanalare la sua rabbia adolescenziale verso gli immigrati, meglio se arabi o africani. L’adesione a un gruppo di estrema destra non è che la conseguenza di pulsioni intime che, in assenza di una pedagogia alternativa altrettanto efficace, rendono il giovane facilmente permeabile alle tecniche di indottrinamento della galassia più radicale del neofascismo nostrano.
Prima ancora che a tentare di comprendere le dinamiche collettive dell’estremismo nero, Mantegazza – che segue la massima spinoziana «non ridere, non lugere, neque detestari sed intelligere» – prova a entrare nei panni del protagonista, al fine di comprenderne la personalità. Le arti marziali, la cinghiamattanza, lo stadio, i concerti nazi-rock fanno da cornice e, par di capire, sono intese come la parte emersa di qualcosa di più profondo e meno tangibile.

IL RAZZISMO è il vero collante ideologico del gruppo ed è sviscerato al meglio in una discussione tra due camerati che costituisce il rovescio del dibattito politico, a sinistra, sullo «ius soli» e lo «ius culturae». Il primo dice che «è la nostra cultura a essere superiore, non la razza», l’altro ribatte che la cultura si può scegliere, la razza no, e questo «potrebbe portare al fatto che un immigrato che parla italiano e conosce la cultura occidentale passi per italiano e magari possa anche ottenere la cittadinanza mentre noi l’italianità ce l’abbiamo nel sangue».
Alla fine, il giovane razzista aderisce a quest’ultima posizione, la più identitaria e che dimostra la sua profonda solitudine interiore. «Come c’era scritto allo stadio domenica scorsa: un negro non può essere italiano», scrive nel suo diario, anticipando quello che la cronaca ci avrebbe offerto. Il Diario di un razzista si può perciò leggere come un agile compendio delle ragioni di un pallone diretto verso la curva che fa «buu».