Jaron Lanier è un ricercatore, saggista, opinion maker che conta nella Rete. Negli anni Novanta facevano scalpore i suoi dreadlock esposti orgogliosamente quando veniva chiamato a parlare di «realtà virtuale» generata da un computer e con la quale gli umani interagivano attraverso un casco e un guantone che l’informatico aveva sviluppato. Nato da emigrati ebrei in fuga dal nazifascismo, è approdato giovanissimo alla Vpl, dove ha iniziato a lavorare, appunto, sulle realtà virtuali. Dopo, da buon nomade high-tech, ha contribuito a sviluppare il famoso gioco Second Life, per poi lavorare alla divisione giochi della Microsoft, quella per intenderci che ha a che fare con la consolle Xbox.

Per anni ha sostenuto che le macchine informatiche avrebbero migliorato la vita di uomini e donne. È in questo contesto che si è imposto come un guru di Internet. Ha fatto quindi scalpore la stampa di un volume fortemente critico con la cosiddetta Internet 2.0. Il titolo era «programmatico»: Non sono un gadget (in Italia lo ha pubblicato Mondadori). In quel testo, Lanier concentrava le critiche su due aspetti del web. Da una parte la riduzione dei contenuti prodotti on line degli umani a gadget che le imprese usavano per vendere spazi pubblicitari o i propri prodotti. L’altro aspetto, riguardava invece la tendenza delle macchine informatiche a standardizzare la vita sociale, colpendo al cuore sia l’innovazione che la creatività individuale.

La standardizzazione di cui scrive Lanier non ha nulla a che fare con quel circolo virtuoso dell’innovazione, che vede la produzione di macchine e software migliori che nel tempo diventano degli standard. Il caso più noto è il sistema operativo Windows della Microsoft, divenuto uno standard grazie anche a comportamenti della società di Bill Gates fortemente censurati dai giudici di mezzo mondo. Per Lanier, invece, ciò che sta accadendo con la rete è che le macchine e il software sono prescrittive di alcuni comportamenti che inibiscono la creatività.

Ora Lanier torna a parlare di web con una saggio, provocatorio come era il suo precedente libro. Pubblicato con il titolo Who Owns the Future? (Viking), parte dalla crisi, se non collasso della Kodak a causa della digitalizzazioni delle immagini per giungere alla tesi che, dopo aver distrutto molti posti di lavoro manuale, le tecnologie digitali stanno distruggendo il lavoro dei colletti bianco, arrivando all’affermazione che la «classe media» più che dalle tasse sta per essere distrutta dalla Rete. Certo negli Usa, «classe media» indica il lavoro dipendente, ma Lanier sostiene che il web cancella un lavoro che non è riassorbito da altri settori, mettendo in pericolo la stessa democrazia. Una tesi che in rete sta facendo discutere molto, come testimonia la successione di post arrivati alla storica lista di discussione nettime. Una tesi, che pecca forse di semplificazione, ma che va sicuramente merita di essere discussa.