Due sono le questioni centrali affrontate nel recente libro di Maria Antonietta Magrini, Siamo ancora un colloquio. A partire da Eugenio Borgna (Clinamen, pp. 89, euro 9,80): quella generale della comunicazione all’interno di una società sempre più predisposta a favorire l’affermazione incondizionata della «chiacchiera» e quella ancora più complessa dell’attenzione, strettamente legata alla prima e di difficile attuazione in una società dell’accelerazione spinta, come la nostra, e della conseguente distrazione da perseguire a ogni costo. È inevitabile, in tale ottica, l’utilizzo dell’armamentario teorico di ordine «pragmatistico» (basti pensare al ricorso sofisticato agli esiti della Scuola di Palo Alto: da Gregory Bateson a Paul Watzlawick), visto che non si può non comunicare e che dietro a qualsiasi messaggio, anche quello meglio esplicitato, c’è un non-detto, qualcosa di tacito, rivelatore a volte di aspettative, bisogni, ansie che non è possibile fino in fondo nascondere. Ed è già qui che l’autrice invita a operare una mossa per niente scontata, quella di avventurarsi nelle regioni appunto del non-detto, di ciò che rischia di restare del tutto impensato, neppure minimamente avvertito.

È DUNQUE un invito ad orientarsi in ciò che appare di fatto ignoto, che sembra restio alla concettualizzazione piana, ordinata e armonica, quello creato e inviato da Magrini, desiderato e proposto come essenziale per un tentativo di apertura alla comprensione anche minima dei significati che in ogni caso sono in gioco. Una apertura nei confronti di qualcosa che non si riesce facilmente ad afferrare e che richiede degli sforzi immaginativi, il compiersi di proiezioni di sé, come soggettività coinvolte e così «parziali», per arrivare a una qualche messa in figura di ciò che ci stimola e ci colpisce. Tali proiezioni, ai limiti del fantasticare, sono sia modalità di lettura/interpretazione di quello che consideriamo significativo sia dinamiche di carattere profondamente emotivo, dei veri e propri investimenti che rinviano anche a delle attese, delle particolari «credenze», delle illusioni di coloro che in tal modo (si) interrogano.
In quest’ottica, Magrini sviluppa la sua ripresa di alcune delle tesi di Eugenio Borgna, con il loro retroterra di sapore fenomenologico (in ambito psichiatrico), e – accanto a ciò – una sensibilità analitica rivolta pure in direzione dell’esperienza di Franco Basaglia e dei suoi collaboratori, con le ricadute di ordine pratico che ben si conoscono. In ogni caso, dal confronto con Borgna, con la sua particolare progressione di ricerca che va dal «come» si comunica al «cosa» si comunica, per approdare all’essenziale «chi» comunica, l’autrice ricava una idea della prassi comunicativa come processo costruttivo di storie, di racconti all’interno dei quali l’immaginazione ha un ruolo centrale, predisponendo così a una pratica di cattura e di fascinazione rispetto al detto e non-detto dell’interlocutore.

L’IDEA DI FONDO è quindi quella importanza del sentire, dell’avvertire, dell’attendere, per poter su tale base cominciare a immaginare qualcosa dell’altro, vale a dire per tentare di farsi delle domande: a questo punto emerge un che interrogativo, appunto nell’aprirsi, che si può anche fare racconto (come testimoniano molti dei testi dello stesso Borgna), nel momento in cui anche nella situazione di maggiore fragilità e vulnerabilità, di esposizione senza difese dei soggetti coinvolti, si manifesta quel legame tra gli esseri umani che si concretizza nel farsi delle domande, nell’evidenziare quelle che sono delle incertezze e insicurezze, derivanti da modi spesso insensati di vita o da quelle che, in tempi non troppo remoti, Günther Anders definiva come delle «patologie della libertà», come delle intensificazioni, quasi sempre manipolate e strumentalizzate, di un sentimento radicale di estraneità a ciò che si ha di fronte.

MAGRINI, già autrice di un libro importante sulla «sindrome di Rett», vede molto bene – e la fa propria – la complicazione del quadro di riferimento della ricerca di Borgna, la assume nel suo calarsi all’interno di una dimensione esistenziale contrassegnata dall’affermazione di sentimenti-chiave della nostra contemporaneità: fragilità, paura, solitudine, ma la sua proposta di un pensiero risolutamente interrogativo e dunque aperto all’imprevisto, al caso, al valore-valere della relazione che comunque fa capolino («comunica») anche nel silenzio, va nella direzione, effettivamente fertile, di un considerare l’altro nel proprio stesso sé, anche quando sembra di essere soli. Lo si è spesso soli, anche in una società apparentemente affollata come la nostra, ricca di sempre più sofisticate tecnologie comunicative, ma ciò non vuol dire che ci si debba comunque pensare come condannati all’isolamento, alla separazione più avvilente e mortifera, all’impossibilità del perdersi, del camminare e del ritrovarsi e ritrovarci da qualche parte.