Scritte sopra un rumore di sottofondo appaiono le diciture de I necrologi (edizioni La camera verde, pp. 35, euro 15 – www.lacameraverde.com), l’ultimo libro di poesie di Nadia Agustoni, sussurrate come nel Racconto uscito da Aragno nel 2016. Diciamo poesie con convinzione, pur sapendo che ci troviamo di fronte a qualcosa di non convenzionale, nemmeno un ponte tra prosa e verso. I testi de I necrologi si presentano infatti come pura rarefazione del narrare, un’epica come sottrazione prima della scrittura. Resa al lettore in una complicità assoluta a dare forma quasi cronachistica agli avvenimenti, tutti interiori, che scandiscono il lavoro in fabbrica, dalla prima all’ultima ora, «la prima ora veloce. La seconda eguale»
Nella semina di una punteggiatura fatta di punti e basta, punti come ferite e barre di tempo che separano mondi e sensi. Dove «le parole sono l’alba. L’alba è coniglio. Corre davanti l’auto… il reparto, le macchine… parte il rumore. Il giorno è giorno tra tanti. Succede in fretta quel vuoto senza parole».

E SE LE MACCHINE altro non sono che lavoro umano incorporato, l’accelerazione prevista dal turno fa sì che «la fretta stringe il corpo a qualcosa. carichi e togli. ricarichi e limare. 4 volte su una macchina. 8 su due», mentre la velocità e il rumore cancellano i sensi: «sentire due parole intere no». Perché i molti tempi della fabbrica sono veloci e inspiegabili «li creano con la voce grossa» e poi «non si spiega niente agli operai. Nascono fottuti. La povertà gli sta dentro».
Cos’è dunque questo rumore di sottofondo fissato, fotografato, nero su bianco, nello scarno e prezioso quaderno? È presto detto. È il silenzio affluente sulla residua condizione dello sfruttamento, nell’epoca che vuole a tutti i costi l’ideologica scomparsa della classe operaia e del lavoro manuale alienato, paradossalmente proprio nel momento in cui nel mondo non c’è mai stato un numero così vasto di operai e di vittime operaie sul lavoro.

REGGE IN FABBRICA «un cuore forte che non si perdona», tra contratti che passano e le sotto bestie che «uno per assumerlo lo spogliano» e che pure ogni giorno consistono, vivono, aprendo a loro volta come animali sportelli di abiti da lavoro iconografati con donne nude: «gli piacciono con le gambe aperte». Mentre la cancellazione delle esistenze cammina con l’omologazione degli schermi immateriali, come in tv dove: «uno vuole le ragazze con la tuta e senza i tatuaggi. I neorealisti e il gioco dell’oca». In quattro scansioni interne, come una partitura musicale, qui si suona l’intero universo della violenza insito nello sfruttamento del lavoro alienato, dove le male parole sono il comando di genere, degli uomini, anche quelli sottomessi anzi peggio se più subalterni, contro le donne a cui si prende tutto, come «scopate», «come il male fatto contro un nido». Le parole di Nadia Agustoni non hanno peso, sono eco, hanno spazio e si situano nell’urgenza di definire l’umano, l’esistente che sta sotto e ancora vive sussunto nelle merci: «diventare ferro non si riesce». Giustamente la materia delle poesie di Nadia Agustoni è stata accostata a Simone Weil.

NELLA LUCE della fiamma ossidrica e mentre le guardie attraversano i reparti, arrivano le voci del mondo e le presenze «altre» dei migranti diventati operai. Esplodono i conflitti di razza e di genere, esplodono le solitudini, si lacerano le debolezze degli amori, ma «l’amore è la parola che diventi matto», così quotidianamente dissipato che «allora si muore tanto». L’offesa è all’ordine del giorno nei rapporti, costruita con frasi che uccidono come un buon risultato produttivo nella tabella di marcia del reparto, perché «la vita nelle parole è un male raggiunto». Agli operai resta una sola consapevolezza: «ci allevano polli in batteria. I polli non imparano a volare. Stanno lì da soli. La violenza più della morte».
Ma tutta questa coscienza del lavoro alienato, viene voglia di chiedere, non era movimento? Sì la memoria rarefatta è rimasta, solo per immagini, «uno ci racconta dei picchetti di una volta con le bandiere in giro. sul cancello a parlare di tutto». Ma non è solo la riduzione a ricordo lontano che fa degli operai «nuvole basse». La verità è che «le cose morte sono voci che non riescono a parlare». Ecco dunque l’urgenza dei necrologi.