Le fortune della coltivazione della canapa italiana si identificano storicamente con il ventennio fascista, con il programmatico ruralismo del regime e in particolare con il quinquennio autarchico (1935-1940), quando fu massimo lo sforzo per rendere autosufficiente il Paese puntando sulle risorse del territorio, innanzitutto sull’agricoltura per l’alimentazione, per le fibre tessili e per l’energia (legna, carbonella, alcol combustibile). La canapa in verità era una coltura da molto tempo praticata in Italia. Ma fu in quel periodo, per altri versi il più buio della storia recente del nostro Paese, che cominciò ad occupare un ruolo di primissimo piano, una sorta di «cotone nazionale» per la versatilità degli impieghi che si riuscirono ad ottenere.

La canapa, com’è noto, è un arbusto che, nella varietà da «tiglio» destinata a produrre fibre, poteva raggiungere anche quattro metri di altezza, con le caratteristiche foglie del tutto simili a quelle della marijuana, la variante con più alta concentrazione di cannabinolo.

L’Italia, nei primi decenni del Novecento, era una delle nazioni che coltivava più canapa al mondo, superata solo dalla Russia, quasi un sesto dell’intera produzione mondiale. L’area destinata alla coltura della canapa si aggirava intorno ai 90 mila ettari. Tre quinti circa della produzione di canapa erano localizzati nelle province di Bologna e di Ferrara, con punte nel Veneto ed in Piemonte; gli altri due quinti nel Napoletano. Il 50 % circa della nostra canapa veniva di regola esportata in tutti i paesi. La canapa italiana, per i suoi requisiti di tenacia, finezza, morbidezza e lucentezza era classificata come la migliore del mondo, cosicché con provvedimento del 1935, nel clima autarchico dell’epoca, fu vietata l’esportazione del seme di canapa gigante italiana, per impedire la diffusione della coltivazione di questa varietà in paesi esteri concorenti. Contemporaneamente, per difendere la qualità della nostra produzione interna, fu proposto pure il divieto della importazione di seme di canapa estero.

La canapa dunque continuò ad essere considerata la soluzione principe, «la fibra di gran lunga la più preziosa del patrimonio tessile italiano» e per questo si cercò di perfezionarne al massimo la lavorazione. La canapa come alternativa al cotone si affermò nel momento in cui si riuscì a produrre il fiocco di canapa, con caratteristiche analoghe a quello di cotone: la produzione industriale del fiocco di canapa fu avviata da Leonardo Cerini nel novembre del 1934 a Castellana, nell’azienda che assumerà il nome di Società fibra nazionale «CaFioc. Inoltre, venne messo a punto, con la consulenza del Cnr, un metodo «italianissimo» di stigliatura in verde, cioè dalle piante appena colte, che aumentava la resa di fibre utilizzabili per ettaro; si perfezionarono la miscelazione con le altre fibre, in particolare il cotone, e le tecniche per ottenere il fiocco. Un’altra importante innovazione tecnologica portò all’affinamento dei titoli, ovvero della dimensione dei filati.

Cosicché la canapa sarebbe stata ormai in grado «di sostituire in modo superlativo lana, seta e cotone nel tessuto delle bandiere ed a fabbricare dei leggerissimi tessuti per vestiti». Queste innovazioni erano il risultato di un programma di ricerche sollecitato dalla Corporazione dei prodotti tessili già nel gennaio 1935, cui contribuì anche Camillo Levi direttore del Centro studi della Reale Stazione sperimentale per l’industria della carta e lo studio delle fibre tessili vegetali. Lo stesso Centro di Levi era stato investito dal Ministero dell’economia nazionale, fin dal 1927, di studiare anche la possibilità di ricavare dalla ginestra una fibra con buone caratteristiche analoghe alla canapa. Nonostante questi importanti meriti nell’innovazione tecnologica, anche Camillo Levi, come tanti scienziati ebrei, fu rimosso dall’incarico con l’entrata in vigore, nell’autunno del 1938, delle leggi razziali antisemite.

Inoltre col perfezionamento della tecnica colturale si cercava di migliorare la qualità e di ridurre il costo di produzione sul campo, mentre con la trasformazione delle operazioni intese a ricavare la fibra dai fusti (processi biologici, chimici e meccanici) si cercava di diminuire il costo delle operazioni stesse e, con la dissociazione delle fibre elementari (elementarizzazione, disintegrazione o, inesattamente, cotonizzazione), si mirava ad ottenere una materia atta a maggiore varietà di usi e idonea ad essere lavorata in associazione con altre fibre (cotone, lana, raion) e in surrogazione di esse negli impianti di filatura e di tessitura già esistenti. Ma della canapa di utilizzava tutto, persino i residui legnosi, detti canapuli: impiegandoli soprattutto per la produzione di cellulosa, non solo si valorizzò una fonte di questa materia indispensa­bile alle industrie nazionali, compresa la produzione del raion o seta artificiale, ma anche si conseguì un alleggerimento del costo di produzione del prodotto principale, la canapa, attraverso il maggior ricavo ottenuto dai canapuli.

Nel tempo stesso, un’attiva propaganda a favore dell’uso dei manufatti puri o misti di canapa, si proponeva di stimolarne la domanda sul mercato italiano e sui mercati esteri ancora accessibili. A questo proposito va tenuto presente che con i tessuti di canapa si potevano confezionare anche abiti di tutte le fogge, le tute di lavoro ed i cappotti impermeabili della Marina, i rivestimenti per le strutture alari degli aeroplani, persino le corde con le quali venivano ormeggiati i transatlantici ed anche i famosi «canapi» del Palio di Siena. Le «tute fatica» dei militari di ogni categoria erano ormai interamente di pura canapa.

Spesso, negli stessi impianti industriali, alla filatura e tessitura della canapa si affiancavano quelle del lino. Il principale centro dell’industria canapiera era rappresentato dalla Lombar­dia, con l’80% degli stabilimenti e il 65% circa della maestranza; seguivano il Veneto, l’Emilia e la Campania con il rimanente 35% di addetti. L’industria era finanziariamente concentrata per oltre metà in un solo gruppo (Linificio e Canapificio Nazionale) con un totale di 23 stabilimenti, 105 mila fusi di filatura, 17.000 di torcitura, 1.800 telai meccanici.

Nel secondo dopoguerra il periodo d’oro della canapa italiana si esaurì rapidamente. Il declino fu segnato dall’invasione competitiva delle fibre sintetiche, il nylon in particolare, e dal cotone, imposti dai nuovi alleati nordamericani. A ciò s’aggiunse l’ossessione proibizionista per la possibile commistione con l’insidiosa sorella marijuana.

Ma finalmente questo meraviglioso arbusto sembra si stia riscoprendo. Dunque, bentornata canapa!