Francoforte, autunno 1963, tra grandi difficoltà e contravvenendo a quello che è una sorta di codice non scritto che domina la società tedesca dell’epoca, la Procura dell’Assia, grazie all’azione costante del giudice Fritz Bauer, magistrato ebreo scampato al genocidio, istruisce il primo processo di fronte ad una corte tedesca per i crimini dell’Olocausto. Due anni più tardi, la sentenza che sarà emessa contro una ventina di imputati coinvolti a vario titolo negli orrori commessi nel campo di concentramento di Auschwitz fra il 1940 ed il 1945, cambierà per sempre la Germania descrivendo l’ampiezza delle responsabilità di quanto accaduto e aprendo la strada sia ad una costante opera di indagine sul piano giudiziario, sia ad una ben più profonda e radicale rimessa in discussione della memoria e dell’identità stessa del paese.
Quel passaggio traumatico e decisivo della recente storia tedesca è alla base del romanzo di Annette Hess, L’interprete (Neri Pozza, pp. 368, euro 18,00) che rilegge attraverso gli occhi di Eva Bruhns, che sarà chiamata nel processo a tradurre dal polacco le testimonianze dei sopravvissuti, la presa di coscienza di un’intera generazione. Sceneggiatrice cinematografica e di serie tv molto nota in Germania, Hess tratteggia con grande maestria il venir meno di quel terribile silenzio che ha accompagnato lo sviluppo tedesco del dopoguerra ma ha posto a lungo anche un’ipoteca sulla democrazia del paese.

Attraverso il suo lavoro di interprete, Eva scopre nelle aule di un tribunale i crimini di cui si sono macchiati i tedeschi, ma di cui la società in cui vive nasconde le tracce. Era questa la condizione dei giovani in Germania all’inizio degli anni Sessanta?
L’ispirazione per la figura di Eva è venuta da mia madre, nata nel 1942, che aveva un aspetto altrettanto ingenuo e fiducioso nel futuro. All’epoca i suoi obiettivi di vita erano molto semplici: sposarsi, avere dei figli, mettere su casa, assicurarsi una qualche forma di prosperità. La società tedesca di quel periodo aveva implicitamente messo sotto silenzio, negato, cancellato nei fatti dal dibattito pubblico ogni riferimento al nazionalsocialismo, alla guerra e all’Olocausto. In questo, Eva è una tipica figlia del suo tempo che si conforma senza saperlo alle convenzioni sociali diffuse, in base alle quali la storia criminale del paese era stata messa sotto silenzio. Volevo che attraverso la sua iniziale ingenuità, anche il lettore «scoprisse» la realtà dell’Olocausto come qualcosa di nuovo, sconosciuto: una rivelazione che cambierà tutto e tutti.

Il silenzio, le pressioni e le bugie che circondano la progressiva presa di coscienza di Eva, la spingeranno ad indagare anche il ruolo della sua famiglia nei crimini del nazismo. Ci sono elementi autobiografici nel modo in cui ha scelto di raccontare questa dolorosa scoperta?
In effetti, proprio come accade ad Eva nei confronti di alcuni suoi familiari, mentre lavoravo al romanzo mi sono resa conto che anche mio nonno doveva essere stato parte di quella macchina assassina. Ho sempre saputo che dal 1939 al 1944 aveva fatto il poliziotto nella zona della Polonia annessa al Terzo Reich, ma a lungo non ho collegato la sua vicenda con il genocidio. Poi, mentre mi documentavo per il libro, ho iniziato a indagare con più attenzione e mi sono resa conto che in realtà la polizia aveva sia partecipato alle deportazioni che ucciso direttamente molte persone. Mio nonno non parlava mai di quel periodo: a casa mia era un vero tabù! Ora non posso più chiederglielo, ma sono sicura che fosse colpevole. E credo che da questo nasca il senso di colpa, sia individuale che per tutta la Germania, che mi accompagna da tutta la vita. Con questo romanzo penso di aver cercato in qualche modo di fare ammenda.

La scrittrice e sceneggiatrice tedesca Annette Hess

Mano a mano che Eva fa le sue drammatiche scoperte, sembra rendersi conto di quanto sia sordido il mondo che la circonda. Eppure si tratta della Germania del boom economico: un successo che nasconde l’orrore?
Per certi versi sì, anche se sul piano umano è evidente come sono andate le cose. Lo sviluppo e la ricostruzione del paese dopo il 1945 si sono basati sul silenzio e sul tentativo di nascondere quanto era accaduto. Per ricostruire la Germania che era in ginocchio, i tedeschi dovevano guardare avanti: non c’era spazio per i quesiti riguardo al passato e per i sensi di colpa. Accadeva anche nelle famiglie: si continuavano a ripetere le stesse storie innocenti anche sulla guerra e sul comportamento dei nostri soldati. Ma per arrivare al nocciolo della verità, devi fare domande. Per molto tempo fu quasi impossibile, ma poi fu proprio il processo di Auschwitz a segnare il primo passo verso una realtà nuova, complessa ma che iniziò a fare luce sul nostro passato.

Malgrado a Norimberga i crimini del nazismo fossero già stati giudicati, gli storici sono concordi nel ritenere che fu il processo di Francoforte a cambiare per sempre la società tedesca. Perché?
A Norimberga, gli alleati, i vincitori, processarono i vinti. E solo i nazisti di alto rango finirono sul banco degli imputati. Nel processo di Auschwitz del 1963, furono invece dei magistrati tedeschi a giudicare dei loro concittadini. All’inizio, il settanta per cento della popolazione era contraria al processo, si lamentava che gli imputati fossero dei «pesci piccoli», degli ufficiali di rango inferiore, delle persone «normali», non mostri come quelli giudicati a Norimberga. Poi, udienza dopo udienza venne alla luce l’enorme estensione di Auschwitz, la diffusa responsabilità in quanto lì era avvenuto e così molti tedeschi cominciarono a prendere coscienza della propria colpevolezza e riconobbero la necessità di un lavoro di indagine ancora più ampio. Tutto ciò avrebbe posto le basi per quella che nel paese va sotto il nome di «cultura del ricordo» e che presuppone che ogni tedesco continui ad interrogarsi sul passato del proprio paese.

Lei ha spiegato di aver deciso di scrivere questo libro dopo aver ascoltato integralmente le 400 ore di registrazione del processo di Francoforte. Qualcosa è cambiato dentro di lei?
Il tema della «colpa» dei tedeschi mi accompagna fin da quando da bambina ho capito la portata di quanto era accaduto durante il nazismo. A lungo non avevo però trovato il modo per affrontare ciò che sentivo intimamente. Nel 2013, quando ho ascoltato le registrazioni del processo e sono rimasta profondamente colpita da un’interprete polacca che, con il suo modo calmo, preciso e affidabile, ha dato sicurezza ai testimoni che raccontavano quanto avevano visto e subito. Dalla figura di questa donna è nata l’idea del personaggio principale del romanzo. Però, non era ancora sufficiente. Volevo che avesse intorno anche una tipica famiglia tedesca, niente eroi o mostri, ma persone comuni che avevano avuto la loro parte della storia del paese. Per questa via, tornare al processo di Francoforte mi ha aiutato a tirare finalmente fuori ciò che provavo da tempo.

Anche in altri suoi lavori, come la serie «Ku’damm 56», si ha l’impressione che tra i giovani tedeschi covasse un desiderio di rivolta per prendere le distanze dalla generazione dei padri coinvolti nel nazismo. Anche in questo senso il processo di Francoforte segna uno spartiacque?
Senza alcun dubbio. Quel processo ha contribuito a mettere in moto una resistenza alla generazione precedente, repressiva e votata alla rimozione storica, che sarebbe sfociata nel Sessantotto. In seguito, negli anni Ottanta, la trasmissione in tv della serie Olocausto avrà un effetto simile sui nipoti di quanti erano stati parte del Terzo Reich. A questo punto, la società tedesca non avrebbe più smesso di interrogarsi.

«L’interprete» indaga gli umori del dopoguerra e l’oblio di fronte alle proprie responsabilità. Ritiene che i tedeschi debbano continuare a misurarsi con il sentimento della colpa dopo aver cercato di dimenticare così a lungo?
Non puoi costringere nessuno a sentirsi in colpa. Ad esempio, le mie figlie (19 e 20 anni) non si sentono più colpevoli, a differenza della maggior parte dei tedeschi della mia generazione. Tuttavia, il concetto di colpa collettiva merita una riflessione supplementare. Dalla biografia della mia famiglia emerge come si tratti di un debito reale che mi è stato trasferito da mio nonno. Ed è noto che tali traumi sono spesso ereditati attraverso le generazioni. Durante le presentazioni del libro sono stata spesso avvicinato da lettori che hanno visto rispecchiate nella storia le vicende, e il relativo e concreto senso di colpa, della propria famiglia. In questi casi, anche se tu non sei colpevole in prima persona, hai perlomeno la responsabilità di studiare e informarti davvero su quanto è accaduto. E di trasmettere tutto ciò ai più giovani perché conoscano la verità.