L’edizione originale de L’immagine fantasma di Hervé Guibert risale al 1981; ora, meritoriamente, il libro di Guibert – autore poco noto in Italia (come testimonia la traduzione avvenuta a quarant’anni dalla prima edizione) – è stato pubblicato da Contrasto (pp 191, euro 14,90, traduzione di Matteo Martelli, prefazione di Emanuele Trevi).

Si tratta di un testo che inaugura la collana Lampi della casa editrice diretta da Roberto Koch. Qui troveremo libri – in un piacevole formato 13×19 – caratterizzati da copertine al tempo stesso semplici e raffinate, realizzate con gli scarti alimentari. Nel caso di Guibert, scarti di olive. Hervé Guibert è stato un critico, un fotografo e uno scrittore. La sua attività di editorialista si è protratta nove anni, per il quotidiano Le Monde, dal 1977 al 1985, e per il settimanale L’Autre, dal dicembre 1985 al luglio 1986. Tuttavia, L’immagine fantasma di Hervé Guibert non è un testo teorico sulla fotografia, bensì un testo che include una serie di storie esplorative, attraversa epifanie personali e generi: foto di famiglia, di viaggio, di archivi giudiziari, foto porno, divinatorie, polaroid.

LE STORIE OSCILLANO costantemente tra i due poli fondamentali di Guibert, l’immagine della famiglia e l’immagine dell’amore. E questo spiega la doppia dedica del libro: a T, uscito dal romanzo. E ai miei genitori. Ecco che la fotografia è trattata in ragione del suo riverbero nella scrittura, e in ragione di quella stessa complessa relazione testo-immagine – o ancora più – con la teoria del linguaggio (questione dai risvolti personali, esplicitata da Guibert quale risposta dissacrante all’amico, teorico de La camera chiara, Roland Barthes).

Ne L’immagine fantasma le fotografie sono assenti (fin dalla copertina, tutta sprazzi di scrittura). Potremmo dire che ne L’immagine fantasma – per il tramite delle parole – le descrizioni si dipanano di immagine in immagine, al punto da diventare invisibili. Tutti i personaggi delle storie (storie, micronarrazioni, e non necessariamente racconti) sono presenze relazionate al narratore, i personaggi spesso introdotti dalle sole iniziali, iniziali utili a sottolineare l’irrilevanza dell’immagine-simulacro, qualora nascondano amici noti, quali, per esempio, Roland Barthes o Isabelle Adjani.

E questo, sebbene a Guibert non importasse nulla di preservare la privacy di nessuno, né la sua né quella degli altri, soprattutto se la storia-pretesto aveva una qualche pertinenza rivelatoria correlata alla sua vita. Nel 1990 Guibert aveva svelato – in un romanzo autobiografico dal titolo A l’ami qui ne m’a pas sauvé la vie, All’amico che non mi ha salvato la vita – che, nel 1984, Michel Foucault, amico intimo e mentore di Guibert, era morto di Aids.

Foucault non aveva mai voluto dire niente riguardo la sua malattia. In seguito, Guibert aveva giustificato la violazione come una prerogativa del loro destino comune: presto sarebbe morto allo stesso modo. La pratica artistica di Guibert prevedeva, per chi fosse autore e per chi spettatore, un’identica anomala presa di distanza da sé, una sorta di cartina di tornasole: più la storia è vicina, più è trattata con estraneità, come se fosse un materiale dotato della specifica capacità di generare nient’altro che istantanee.

ISTANTANEE INQUADRATE in un processo di duplicazione che – nei testi – si fanno quasi curative; non a caso Guibert, nel frammento intitolato L’immagine cancerosa scriveva: «E la stessa immagine si ricomponeva, esatta ma al contrario. Il trasferimento aveva liberato il ragazzo dalla sua malattia». Oppure – nel frammento intitolato Foto d’identità – il narratore va all’anagrafe per il rinnovo della carta d’identità: «Chiesi di recuperare il mio viso precedente. Era forse la sola fotografia che avevo a quell’età, con quella testa, come quella di qualcun altro. Ma l’impiegato rifiutò dicendomi che non poteva toglierla dalla vecchia carta d’identità poiché sarebbe stata conservata e archiviata».

Insomma, nessuna investigazione sull’identità era oramai necessaria; necessaria è invece una ricostruzione dell’esperienza vissuta che obbedisca sempre allo stesso progetto iniziale: arrivare alla fine della rivelazione o alla scomparsa di sé.