A scorrere la lista dei libri di ambito filosofico pubblicati nel corso dell’ultimo anno e mezzo si può trovare conferma di alcune direzioni generali che da tempo sembrano caratterizzare in Italia la fragile editoria del settore.
La filosofia in Italia conferma, innanzitutto, la tendenza a presentarsi, per lo più, come un’indagine dell’attualità: Forza lavoro (DeriveApprodi) di Roberto Ciccarelli, Stranieri residenti (Bollati Boringhieri) di Donatella Di Cesare, Crisi come arte di governo (Quodlibet) di Dario Gentili, per nominarne solo alcuni, sono tutti testi che cercano di produrre categorie filosofiche a partire dalle contingenze dell’epoca.

UN SECONDO DATO significativo, benché dalla portata più limitata, riguarda il fiorire degli studi che si collocano tra psicoanalisi lacaniana e filosofia. Mi limito qui a segnalare due testi (entrambi da Ortothes): Jacques Lacan e il buco del sapere. Psicoanalisi, scienza, ermeneutica, di Luigi Francesco Clemente, che a partire dal confronto tra Lacan e Ricoeur perora la causa di un’analisi come ricerca di un contatto rischioso e aspro con il reale; e Il pieno e il vuoto. Jacques Lacan, Gilles Deleuze e il tessuto del reale di Yuri Di Liberto, nel quale si tenta una conciliazione tra il discorso lacaniano sulla mancanza come causa del desiderio e quello deleuziano sul desiderio che non manca di nulla.

Nell’ambito dei libri propriamente filosofici si può notare in primo luogo il lento, ma non ancora abbastanza inesorabile, declino dei testi meramente accademici. L’esplosione di pubblicazioni a soli fini concorsuali che si era avuta attorno al 2008 tende lentamente a spegnersi, ma a questo non corrisponde affatto la ripresa di una scrittura più libera dai vincoli settoriali.
Le eccezioni a questo stato di cose non sono numerose, certo, ma proprio per questo sono ancora più significative. E soprattutto sono eccezioni che disegnano, forse non casualmente, un campo di questioni e problemi comuni.

La Filosofia dell’automatismo. Verso un’etica della corporeità (Orthotes) di Igor Pelgreffi, ad esempio, pone il problema dello statuto e della genesi dei meccanismi psicologici e sociali della ripetizione, per mostrare come le resistenze del corpo possano aprire la via di un’emancipazione intesa come liberazione dalla passività. Su un terreno problematico analogo, benché con una prospettiva storica più ampia e con esiti differenti, si pone Marco Piazza che con Creature dell’abitudine. Abito, costume, seconda natura da Aristotele alle scienze cognitive (Il Mulino) ripercorre le trasformazioni che l’abitudine e i suoi derivati hanno subito nella storia della cultura occidentale.

Ancora sulla medesima linea, Marina Montanelli mette a tema, partendo da Benjamin, Il principio ripetizione (Mimesis), cioè quella tendenza tipicamente umana che forse, se pensata in relazione alle abitudini ludiche dei bambini, non si riduce a mera «coazione», ma manifesta il carattere della produzione del nuovo a partire da materiali dati.

ANCHE UNO DEI LIBRI più appassionanti usciti in questo periodo, Lo spettacolo di sé. Filosofia della doppia personalità (Meltemi) di Barbara Chitussi, sembra poter rientrare in questa linea di tendenza. Il problema della ripetizione, in effetti, non esisterebbe se la soggettività umana non avesse la caratteristica di potersi osservare dal di fuori. In questo senso, l’imitazione, il fare da sé come un altro, si profila come una forma di ripetizione primordiale che sta alla base di ogni nostra possibilità di conoscenza. Il che significa, come Chitussi mette in luce con grande finezza, che la nostra esperienza personale è da cima a fondo dipendente dal gioco delle maschere ideali e sociali che indossiamo di volta in volta.

A margine di questa produzione, si può notare come anche in Italia resista la possibilità di una filosofia, per così dire, pura. Mi riferisco soprattutto a quello che è, senza ombra di dubbio, il testo di filosofia più importante dell’ultimo anno e non solo: La vita delle piante. Metafisica della mescolanza (Il Mulino), di Emanuele Coccia.
C’è almeno un punto sul quale il testo di Coccia risuona con quelli citati in precedenza: l’abbandono definitivo di ogni pretesa autenticità ed eccezionalità umana.

QUESTO, IN PRIMO LUOGO, perché vivere, come testimonia appunto l’esistenza vegetale, è innanzitutto «vivere della vita d’altri», assimilare, parassitare, cannibalizzare gli elementi che altri (non necessariamente umani) hanno prodotto. Ma anche perché bisogna riconosce che sull’autonomia della nostra personalità individuale, come su quella del nostro corpo vivente, primeggiano le mescolanze che inglobano corpi e persone in relazioni non umane, ma cosmiche. La nostra vita, spiega Coccia, non sta in interiore homine, ma fuori di noi, nell’atmosfera, nella luce, all’aria aperta. Bisogna immaginare di essere fatti della stessa materia del mondo circostante, di avere la stessa natura della musica, che è fatta delle vibrazioni dell’aria, o assumere le movenze della medusa, che altro non è se non un «ispessimento dell’acqua». È una filosofia atmosferica quella che viene al contempo argomentata in un quadro d’immagini fantastiche e che ha bisogno di presentarsi quasi nella forma antica del poema (peri physeos, sulla natura) per rendere conto della materia oltre-umana che fa il nostro mondo al contempo denso, brulicante di vita e tuttavia aereo, pneumatico, astrale.

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SCHEDA

«Almanacco alfabeta 2019 – Cronaca di un anno» (DeriveApprodi, pp. 224, euro 20) – si concentra sugli avvenimenti e gli oggetti che hanno attraversato il percorso della rivista negli ultimi mesi. Oltre ai curatori Maria Teresa Carbone e Nanni Balestrini hanno collaborato Andrea Cortellessa, Furio Colombo, Lelio Demichelis, Andrea Fumagalli, Mario Gamba, Manuela Gandini, Giorgio Mascitelli, Vincenzo Ostuni, Letizia Paolozzi, Roberto Silvestri, Valentina Valentini, G. B. Zorzoli. Le fotografie sono di Uliano Lucas.