Cosa si può fare della tristezza? Di quella che deriva da un destino infausto, dall’impossibilità a realizzare quel sogno che si è sempre creduto fosse il traguardo più importante, che avrebbe garantito all’esistenza il fatidico imprescindibile senso? Sembra essere questa la domanda intorno a cui ruota il romanzo di esordio di Elvira Antinozzi, Essere nudi e basta è troppo dura, edito da Sempremai (pp. 153, euro 16).
La protagonista, Evelina, è una donna che si racconta come una nullità: «sono un’impiegatuccia di ultima in un Ente di Bologna, una rotella minuscola di un ingranaggio mastodontico», minima anche nel corpo, che il marito definisce essere quello di un’anoressica, tanto che in una scena del loro strano matrimonio, si legge: «“È vero che pesi più di quaranta o mi hai detto una balla?”. “Sì è vero”. “Allora ti spogli e sali”. E io son salita. Non ero sicura che fosse vero. Per un pelo, era vero. “Sono brava?”. “No!”. “Non son brava, nemmeno un po’?”. “Lo capisci che ti fai del male? Che devi mangiare?” “Sì”».

NON SI CAPISCE, invece, se Evelina non mangi per punirsi o, come può accadere spesso, proprio per dimostrare a un voracissimo Super Io di essere davvero brava. Si tratta di una qualità, quella della bravura, che nel romanzo torna spesso. La voce narrante ricorda molte volte sia che per la madre la cosa più importante era che sua figlia fosse brava, sia di come da adulta Evelina si affanni nel tentativo di esserlo. Non è mai chiaro, però, se per lei si tratti di un imperativo categorico che deriva dall’osservanza cattolica o altro e in effetti non è così semplice discernere tra i comandamenti di Dio e le leggi severe che detta l’Io quando cerca di mettersi sulla retta via. Il risultato in ogni caso è che la protagonista di questo romanzo è un vero disastro, in tutto e per tutto. Non riesce a fare le cose più semplici: sbrinare un freezer o utilizzare il forno. È una frana quando si tratta dei rapporti umani e sono varie le pagine in cui la lettrice e il lettore sono invitati a leggere la sequela delle sue «gaffe». Il marito la lascia di punto in bianco e si trasferisce in Svizzera e seppur siano chiare le ragioni di questo taglio netto, non sappiamo mai che cosa esattamente abbia provato Evelina e soprattutto cosa di concreto abbia fatto per trattenerlo, oppure lasciarlo andare.
Tutta questa inettitudine, però, è il senso stesso della storia: l’esito della lotta impossibile tra ciò che Evelina avrebbe dovuto essere, secondo i dettami educativi ricevuti, e ciò che non è riuscita a diventare, ma anche la battaglia lacerante contro ciò che essa stessa, in un tempo a cui forse la memoria non sa più arrivare, si è imposta di realizzare. Evelina voleva avere una bambina: Miriam, ma non è stato possibile.

ELVIRA ANTINOZZI è brava a raccontare l’incastro di una personalità, quando qualcosa considerato necessario per poter pensare di aver vissuto una vita degna non ci riesce, non capita o chissà e invece si realizza la perversione orripilante con cui si arriva a cancellare tutto il resto, che esiste, c’è, in nome di qualcosa che appartiene solo ed esclusivamente alla sfera dell’impossibile. La solita meravigliosa storia di quanto spesso sia molto più facile convivere coi fantasmi che con la realtà. Dal punto di vista formale è molto interessante lo stile che ha spesso il ritmo di una filastrocca, anche perché sembra che Evelina sappia che l’atteggiamento con cui affronta la vita è assurdo e allora l’andazzo ingenuo, giocoso della lingua pare il timbro di una certa autoironia della protagonista. Da segnalare anche le citazioni letterarie, folte.
Che cosa si può fare della tristezza? Magari un esordio letterario.