“Quando a le nostre case la diva severa discende” è il primo verso del primo distico elegiaco di Mors. Nell’epidemia difterica, l’ode che Giosuè Carducci compone e perfeziona nel corso di due anni, tra il 27 giugno 1875 e il 19 giugno del 1877, allorché il testo verrà accolto nel Libro II delle Odi barbare che l’editore Zanichelli dà in stampa nel luglio di quell’anno.

Il 23 agosto del 1875 il poeta scrive a Carolina Cristofori Piva, a l’amata Lina, la musa che egli canta col nome di Lidia (il “viso dolce di pallor roseo” di Alla stazione in una mattina d’autunno; e per lei stende in quei giorni d’agosto Ruit hora: “fra le tue nere chiome, o bianca Lidia,/langue una rosa pallida”); a Lina, dicevo, scrive dunque: “io che ho visto, or son due mesi, morire in cinque giorni due bambini floridissimi d’un mio collega (si tratta dei piccoli Luisa e Fausto, figli di Giovanni Battista Gandino), con quanta pietà!, comprendo lo strazio che nel pericolo dee avere una madre”.

L’epidemia difterica imperversava a Bologna, e la comprensione dello “strazio” nella percezione dell’incombente e diffuso pericolo di morte, Carducci si applica a rendere in poesia. Una poesia che egli si impegna a voler ‘nuova’: “Odio l’usata poesia”, dice nel programmatico Preludio che apre le Odi Barbare, quando dichiara: “A me la strofe vigile, balzante/co ’l plauso e ’l piede ritmico ne’ cori”.

Una ritmica ‘nuova’ cercata, come avviene nella poesia italiana dal Chiabrera in poi, nella metrica classica e qui, in Mors, sul conio del distico elegiaco antico (formato da un esametro e da un pentametro), tentata da Carducci nella combinatoria di settenari e novenari.

Il 28 luglio, sottoponendo al giudizio di Lina sette dei distici di Mors ai quali attendeva, le aveva chiesto: “senti se questi ti paiono versi. Imagina che l’argomento sia Thànatos, la Morte”. Dunque la strofa in due versi del distico elegiaco è scelta da Carducci come specialmente consona ad imprimere alla composizione un andamento adeguato al tema: lento, composto, con soste previste, scandite secondo un movimento musicale che, mentre avvolge e si estende, tuttavia incede.

Si comprende allora come, a certe obiezioni di Lina, egli ribatta: “che tu abomini que’ miei poveri versi, non è gran male. Ma bada: ciò vuol dire che non gli ho ancora fatti bene. Ma quel metro ha da riuscire, in tutti i modi ha da riuscire”.

Questo il proposito esplicitamente dichiarato di Carducci, quasi che nella reiterata doppia fila del distico si componga la suggestione d’una qualche funebre marcia. E prenda forma, proprio dalla scansione rigorosa del metro, la successione delle immagini via via delineate così che l’opera della morte per epidemia quasi si palesi, poeticamente, nei modi pervasivi, dilaganti del suo quotidiano compiersi. Si legga: “(…) e l’ombra de l’ala che gelida gelida avanza/diffonde intorno lugubre silenzïo”.

O: “Entra ella, e passa, e tocca; e senza pur volgersi atterra (…)”. I commentatori, penso a Mario Saccenti, non mancano di richiamare, molto opportunamente, riguardo alla raffigurazione della “diva severa” qui perseguita da Carducci, diretti echi e calchi da Orazio (“la morte che alita d’attorno con nere ali”, Satire, II, 1, 58 ) e da Virgilio (“da lontano riconobbe le strida e le ali”, Eneide, XII, 869).

Vorrei, estraendo dai versi alcune delle voci verbali che nell’ode contrassegnano l’estendersi dell’opera della morte per epidemia, mettere in evidenza come Carducci ne descriva, per così dire, il contegno, o, si voglia, il modo di agire. “a le nostre case discende”. “gelida gelida avanza”. “diffonde intorno”. “addensa”. “corre un fremito”. “entra ella”. “passa”. “tocca”. “senza pur volgersi atterra”. “miete”. “strappa”. “coglie”. “spegne”. Secondo un tale crescendo si muove la “pallida muta diva”.

Cala e ti par di udire da lontano il suo sopraggiungere nel cupo rumore che sordo la annuncia. Ed ora inarrestabile avanza, mentre si estende a tutto coinvolgere diffondendosi. Così che passa per ogni dove e lambisce e sfiorando incontaminata atterra. L’aria si oscura, attoniti, immobili, noi al suo passaggio, avvolti dall’ombra depositata dalle sue grandi ali battenti.