C’è un autoritratto-fotomontaggio di Saul Steimberg dove il grande artista da vecchio si ritrae tenendo per mano se stesso bambino. Ben ordinato e vestito alla moda scolastica di fine ottocento. Anche Enzo Scandurra nel suo romanzo La disgrazia (Castelvecchi, pp.156, euro 17,50) si fa prendere per mano dal se stesso bambino. E con i suoi occhi rilegge la propria storia e quella di Roma che si trasforma. Il bambino cresce con l’espandersi della città. Vede i palazzoni della periferia che si mangiano la campagna, e cambiano la prospettiva da cui guarda il mondo. La periferia sicura delle case dei ferrovieri è adesso quella inquieta nella quale si muove Pasolini alla ricerca di corpi e di storie.

OCCORRE FARE I CONTI, lui bambino per bene e con qualche curiosità culturale, col mondo feroce dei ragazzi di borgata. Proverà un senso di inadeguatezza, un non sentirsi quasi mai al proprio posto, che sarà per tutta la vita la sua debolezza e forza. La forza di chi è capace di osservare il mondo e se stesso, senza farsi rinchiudere nei limiti del ruolo che la società gli ha assegnato. Del resto glielo dirà anche la madre (che non ha mai avuto voglia di confrontarsi e riconoscere la sua crescita e maturità: «Ma tu sei proprio un professore d’università?».
Francesco, questo è il nome che Scandurra dà al bambino del suo libro, è vissuto nella ammirazione e nel rispetto della figura paterna. Grande nella vita – ferroviere macchinista, socialista e stimato dai compagni di lavoro e di fede politica – e grande nel vivere la malattia che lo porterà alla morte. Non sentirà mai la madre come una presenza amorevole, in grado di proteggerlo. Fino al giorno della «disgrazia», la scoperta da parte di suo padre del tradimento della moglie con il macellaio del mercato del quartiere. La inadeguatezza materna, il mancato amore verso il figlio troverà una eco e una ragione nel giudizio dell’intera famiglia precipitata nella «disgrazia», esorcizzata nel rito collettivo della condanna pubblica.
È una storia dura, da cui Francesco tenterà di uscire sul lettino dell’analista. Ma rivivere via analisi il trauma infantile, riconoscerlo e portarlo alla coscienza, non basterà per ritrovarsi. Non sarà sufficiente sapere che cosa lo ha sconvolto da piccolo. Quel bambino lo dovrà riprendere per mano rileggendo insieme a lui tutta la storia. Ci vorrà la madre sul letto della malattia e della morte, e insieme la scoperta della sua stessa malattia, per intraprendere un percorso diverso: quello della scrittura. Sarà un esercizio di verità in pubblico, in cui tutto ciò che ha provato e capito possa essere messo a disposizione di quel bambino per provare a elaborare il vissuto di quei giorni. E il bambino di allora scoprirà di essere stato uno strumento di oppressione della madre, l’arma decisiva con cui una nonna bigotta e il padre socialista hanno represso i semplici sogni di libertà femminile quando lei, nell’immediato dopoguerra, attraversava Roma con le amiche per andare a lavorare. Una città bella e aperta che prometteva una vita libera e lieta. Lavoro e sogni che finiscono dopo il matrimonio, e su cui la maternità pone una pietra tombale.

LE MENZOGNE della madre, agli altri, al figlio, a se stessa, la sua difficoltà a essere disponibile, gli apparirà come un disperato tentativo di resistenza all’essere inchiodata al ruolo che la cultura del suo tempo le imponeva. Il riconoscimento avverrà sul letto di morte; lei riuscirà a sorridergli cominciando a sentire, nel modo magico in cui si sente alla fine della vita, che in Francesco – che pure ha sempre esercitato correttamente il ruolo del figlio verso la madre malata – c’è qualcosa di più. È cambiato il modo in cui lui la guarda.
Sono ormai tanti gli uomini che si accostano al femminile scrutando dentro loro stessi. E numerosi ne hanno scritto parlando dei propri amori e delle proprie compagne, nel quotidiano e nella lotta. Enzo Scandurra compie un’operazione più difficile. Cerca di portare alla luce le ragioni delle donne e del femminile dentro il trauma che gli ha segnato l’esistenza. Di capire le ragioni della madre, quelle alla base della «disgrazia».
A Francesco questa lucidità è concessa anche dalla malattia, dalla scoperta del cancro, certo contrastabile il più a lungo possibile, ma che prima o poi vincerà la battaglia. Scopre la felicità possibile in una vita senza progetti, nello stesso amore per la sua compagna in cui le carezze, i gesti quotidiani di affetto non hanno più compimento in un rapporto sessuale, scopre la bellezza di vivere fino in fondo il presente, e scopre che quel presente il bambino che era e che è in lui lo può abitare. E questo spiega il miracolo della scrittura lieve e serena, a tratti divertente, in cui racconta la storia della sua «disgrazia». «La felicità può comparire in forme paradossali quando hai perso la speranza».