La preparazione cominciava una settimana prima e coinvolgeva il lato debole della famiglia, quelle categorie un tempo considerate da proteggere, controllare e salvare per prime in caso di disgrazia, ovvero donne e bambini. Il compito era preparare il piatto principale del pranzo di Natale, gli anolini, tortelli di pasta ripieni di parmigiano, pane, uova e cotti nel brodo di carne.

La direttora della fabbrica degli anolini era la nonna Angiolina, una contadina che a noi appariva grande come un cantonale per via della statura, della stazza con petto sesta misura, dell’attitudine al comando, dell’abilità come cuoca. Prima di iniziare la produzione comprava le uova, per lei fondamentali, dai vicini che allevavano le galline all’aperto nutrendole solo con gli scarti degli umani e non con i mangimi. Poi convocava tutti nella cucina e dirigeva i lavori come un generale.
Per dare un’idea delle quantità, un commensale medio mangia circa trenta anolini, ma lì si faceva sempre il bis, qualcuno il tris, e visto che si era in otto e che gli anolini si mettevano in tavola anche a Santo Stefano, la nonna calcolava che bisognava produrne almeno mille. Ognuno di noi aveva dei compiti ben precisi. Lei impastava la pasta e poi la tirava in strisce sottili, tutto a mano e con il mattarello, mia madre preparava il ripieno, insieme lo sistemavano a distanza regolare sulle strisce di sfoglia, io e mio fratello dovevamo ritagliare gli anolini con lo stampino rotondo e poi ordinarli in file precise su vari taglieri.

Quel lavoro ci piaceva moltissimo. Io sentivo come un imperativo il dover ricavare e ordinare cappelletti perfettamente rotondi. La precisione di quel lavoro era una richiesta imprescindibile della nonna che così poteva contarli con somma esattezza. Era un compito poco creativo e un po’ da geometri, ma mi rendeva orgogliosa.
Mio fratello Pietro era meno attirato dall’ordine, a lui piaceva l’atmosfera di quella cucina con tutti i suoi profumi, il parmigiano, il brodo di carne, la noce moscata, il pane scottato, le uova, le chiacchiere, i vetri che si appannavano per via dei vapori che uscivano dalle pentole, il possente tavolo di legno che tremava sotto la forza delle braccia impastanti dell’Angiolina.

Quando si trattava di usare lo stampino, poi, non centrava mai un anolino. Gli venivano quasi tutti sghembi, con il ripieno mezzo fuori e mezzo dentro e lì sì che l’Angiolina si arrabbiava e gli intimava: «Basta, va vie te che non sei capace». Lui non si muoveva, la guadava con gli occhini e diceva: «Ma se è venuto male posso mangiarlo?». «E par forsa. Si può mica mettere nel piatto degli agnolini così sagagnat».

Gli anolini crudi, se fatti come si deve, sono buonissimi, così anch’io sviluppai una mia tattica. Siccome quelli ricavati dalla coda delle strisce di pasta non sempre riuscivano alla perfezione, forte della mia precisione cominciai anch’io a dire: «Nonna, questo è un po’ storto. Lo mangio».
É da allora che preferisco gli anolini crudi a quelli cotti, e le vigilie alle feste.