Non è facile riassumere settant’anni di vita in undici film, anche perché nella storia del festival di Locarno sono molte le pellicole e i registi che hanno segnato inizi di carriere e fatto scoprire sguardi nuovi o di rottura.
Basti pensare alla stagione del neorealismo italiano, ai pionieri della Nouvelle Vague, alla scoperta del cinema orientale, iraniano o di paesi al di là della cortina di ferro. E poi ci sono i registi che a Locarno hanno trovato il loro battesimo internazionale come Milos Forman, Marco Bellocchio, Glauber Rocha, Alain Tanner, Gus Van Sant, Pedro Costa, Abbas Kiarostami, Jim Jarmusch.

La scelta intelligente di questa settantesima edizione è stata quella di riportare a Locarno film con molti anni ma incredibilmente attuali come El pisito, primo lungometraggio di Marco Ferreri girato nel 1958 nella Spagna franchista afflitta, allora come oggi, da una terribile crisi degli alloggi. Oppure San Gottardo di Willi Herman che, raccontando le rivolte degli emigrati italiani chiamati a costruire i trafori, mette in luce la presa di coscienza della classe operaia non più disposta a sacrificare la propria vita in nome del profitto, e qui siamo alla biopolitica.

Programmate nella sala rinnovata del GranRex, sottratta al tentativo di speculazione che ne voleva fare un supermercato, le pellicole raccolte in questa rassegna intitolata Histoire(s) du cinéma: Locarno 70 fanno quasi sempre il tutto esaurito, segno che la fame di qualità è tanta e che i film che resistono al tempo non sempre hanno bisogno di grandi budget o effetti speciali, ma di idee e capacità di cogliere i nervi scoperti. 36 Fillette di Catherine Breillat possiede tutti questi ingredienti. Girato nel 1988, 36 Fillette fece molto scandalo e, come ha detto con sottile compiacimento la regista presente in sala: «Fu massacrato quasi con ferocia da tutta la critica francese. Anche quando lo proiettarono qui a Locarno sentivo la gente muoversi sulle sedie e percepivo il loro disagio».

Rivisto oggi, viene da pensare che 36 Fillette scandalizzerebbe anche adesso, tempi di terribile riflusso moralistico, tutta una schiera di ipocriti protettori del benessere psicofisico degli adolescenti. Il film di Breillat racconta la vulcanica e disordinata fame di vita di Lili, quattordicenne in vacanza con padre, madre e fratello maggiore in un triste campeggio di Biarritz.
Sotto un cielo per nulla estivo e davanti a un mare in perenne tempesta, come il suo animo d’altronde, Lili è consapevole della propria seduttività e la sperimenta in un lungo e in largo con coetanei ma, soprattutto, con un dongiovanni quarantenne. Provoca e si ritrae, seduce e poi scappa, concede qualcosa e poi si ribella, alterna seduzione e litigate epiche condite da improperi, gioca a rimpiattino con i propri e altrui desideri. È questa la sua personale palestra di crescita, un modo di mettere alla prova se stessa e gli altri misurando, di volta in volta, un confine nuovo.

Ciò che rende questo film e la sua protagonista indigesti per gli amanti dell’ordine di allora e di oggi è la grande libertà di decisione che Lili si prende in ogni attimo, sia quando litiga con il fratello e i genitori che vorrebbero controllarla, sia quando dirige il gioco di seduzione con il dongiovanni, sia quando prende a male parole il coetaneo con il quale fa l’amore e che non ha capito niente di lei e del suo corpo. Lili è una ragazza indomita che non vuole stare nel posto dove gli altri la vorrebbero mettere, che vuole avere sempre l’ultima parola su ciò che desidera. È inammaestrabile. Per questo disturbò tanto allora, per questo è così attuale.