Nel dibattito in corso su temi quali lo ius soli, i diritti di cittadinanza e l’idea stessa di cosa significhi «essere italiani» sembra stagliarsi sovente l’ombra di un convitato di pietra, un non detto che in realtà fa da sfondo a molte discussioni, come hanno in qualche modo suggerito con i loro interventi scrittrici e giornaliste come, tra le altre, Igiaba Scego e Nadeesha Uyangoda. Vale a dire se chi si oppone al riconoscimento di quello che appare in realtà come un dato di fatto per migliaia di giovani nati o cresciuti nel nostro Paese che dell’«italianità» fanno pratica quotidiana in ogni modo, non immagini che essere italiani significhi prima di tutto «essere bianchi».

PROSEGUENDO un itinerario di ricerca sulla costruzione del carattere e dell’identità nazionale la storica Silvana Patriarca, docente alla Fordham University di New York, offre un contributo prezioso all’analisi di questi temi, in una prospettiva che indaga le radici del presente. Il suo Il colore della Repubblica (Einaudi, pp. 230, euro 27, traduzione di Duccio Sacchi) muove da un’innovativa indagine sui «figli della guerra»: quei bambini nati alla fine del conflitto dagli incontri tra soldati alleati non bianchi e donne italiane. Bambini che gli afroamericani chiamavano brown babies e che in Italia venivano indicati con un’espressione già di per sé razzializzante: «mulattini».

Attraverso le storie di questi piccoli dalla pelle nera, il cui numero le incerte stime dell’epoca indicavano tra alcune centinaia e varie migliaia, che una volta rientrati nei Paesi d’origine, prevalentemente gli Stati uniti, i loro padri sarebbero cresciuti con le madri, le nonne o spesso negli orfanotrofi gestiti per lo più da personale religioso, Patriarca mette sotto esame il rapporto che la Repubblica nata dalla sconfitta del fascismo ebbe fin dall’inizio con i temi inerenti «la razza», il colore della pelle e l’identità.

Mentre si andava definendo una nuova comunità nazionale che almeno sulla carta si contrapponeva alle idee razziste che avevano accompagnato sia l’esperienza coloniale, fatta propria anche dal fascismo, che le persecuzioni antisemite che avevano visto anche l’Italia offrire il suo terribile contributo alla Shoah, le traiettorie di questi bambini interrogavano in profondità il Paese. E la risposta, come Patriarca illustra attraverso una ricostruzione di vicende poco note, e raramente al centro della ricerca accademica, che incrocia le fonti disponibili nel nostro Paese con quelle statunitensi, le tracce lasciate nell’immaginario, dal cinema alla letteratura, il quadro e il dibattito politico e normativo dell’epoca, è decisamente sconfortante. I bambini con la pelle scura nati dopo il 1945 in Italia «vissero spesso drammaticamente la loro “differenza” e costituirono una fonte di ansia sociale e culturale. Anziché essere considerati normali cittadini, furono definiti “un problema”».

La storica Silvana Patriarca

IN UNA SOCIETÀ che sta facendo ora i conti con una profonda trasformazione della propria popolazione, quella che racconta Patriarca non è perciò solo storia passata, ma è anche «una vicenda che parla al presente». Anche perché, come ricorda la storica, ancora oggi è presente «una concezione dell’italianità che non viene in genere discussa pubblicamente, e cioè l’idea che gli italiani sono europei e bianchi».