Thomas Bernhard è conosciuto in Italia soprattutto per i tanti romanzi che ci ha lasciato, incentrati sul rapporto controverso con la patria austriaca, e caratterizzati da uno stile basato sulla reiterazione quasi ossessiva, con una scrittura estrema e vertiginosa. Altri lo conoscono anche per le sue numerose pièces teatrali, ognuna delle quali è un atto di accusa nei confronti dell’ottusità della sua terra d’origine, o per i suoi tanti interventi pubblici. Rispetto alla convergenza di interessi verso la prosa e il teatro, meno nota al grande pubblico è invece la produzione lirica di Bernhard, caratterizzata da cinque volumi di versi: Sulla terra e nell’inferno (1957), In hora mortis (1958, uscito in Italia nel 2002, a cura di Luigi Reitani), Sotto il ferro della luna (1958), I folli. I forzati (1962), Ave Virgilio (risalente agli anni ’59-60’, e in Italia apparso nel 1991, con la traduzione di Anna Maria Carpi) – ai quali si aggiunge una raccolta rimasta in gran parte inedita. Tale marginalità è in un certo senso paradossale, se si pensa che la produzione di Bernhard prende le mosse proprio dalla lirica.

Scrivere per esistere

È merito della casa editrice Crocetti di Milano la pubblicazione in traduzione italiana del volume di Bernhard Sotto il ferro della luna (Unter dem Eisen des Mondes, 1958), a cura di Samir Thabet. Un’operazione tanto più importante se si pensa che si tratta della raccolta di poesie più amata dallo scrittore, come sappiamo da un appunto degli anni Ottanta. In primo luogo vale la pena di ricordare che alla dimensione lirica Bernhard ha dedicato le sue prime energie intellettuali, facendo precipitare nei versi il vissuto di una generazione scampata alla guerra e i traumi della vita familiare.

Una tappa significativa della sua attività poetica viene ricordata nel volume autobiografico Il freddo (1981). Qui Bernhard descrive il periodo in cui, al capezzale della madre, dopo la scomparsa dell’amato nonno, lo scrittore Johannes Freumbichler, le leggeva le proprie poesie: «Già a quell’epoca mi ero rifugiato nella scrittura, scrivevo, scrivevo, scrivevo, non so più, centinaia e centinaia di poesie, esistevo soltanto quando scrivevo, mio nonno, lo scrittore era morto, adesso ero io che potevo scrivere, adesso avevo la possibilità di poetare per mio conto, osavo farlo, (…) e allora con tutte le mie forse mi gettai nella scrittura, abusavo nel mondo intero per trasformarlo in versi, quei versi, seppur privi di valore, significavano tutto per me, niente al mondo aveva per me maggior significato».

Notti profonde

«Esistevo soltanto quando scrivevo»: la poesia si è configurata agli occhi del giovanissimo Bernhard come una sorta di «via di fuga», come la direzione opposta da seguire per sfuggire alle griglie dell’esistenza, per abusare del mondo, e così sopravvivere. A differenza della prosa, o del teatro, la poesia di Bernhard è svuotata di ogni accezione comica o grottesca; le pagine liriche sono attraversate da una dimensione inquietante e notturna. Se Ingeborg Bachmann per la sua lirica ha tratto ispirazione dalle stelle (vedi Invocazione all’Orsa maggiore), Bernhard ha eletto la luna a protagonista indiscussa della sua lirica, trasformandola in un’entità demoniaca, in una falce che spalanca gli abissi della morte: «Dalle bare della notte/ sale la luna irata,/ stendendo il sudario dell’inverno/ sopra le smorte spalle/ di mesti prati ed egri rivi (…) Il ferro lucido della luna/ ti ucciderà».

La luna di Bernhard uccide con il suo coltello insanguinato, è l’emissaria privilegiata della vera onnipotente presenza di questi versi, ossia della morte. Se c’è una presenza che percorre sotto traccia i versi di Sotto il ferro della luna – come forse l’intera opera di Bernhard – è la costellazione luttuosa di morte e sofferenza. Non è un caso se la natura viene qui presentata come postuma, come un paesaggio siderale spopolato e in cui è annullata ogni dimensione temporale. Parafrasando Adorno, si può dire che qui la storia è lasciata in bianco perché ha prosciugato la forza del ricordo. In questi versi ogni presunto inizio è preso nella morsa di un movimento inerziale e destinato a essere divorato dall’oblio: «Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,/ noi portiamo la brocca e sferziamo la schiena della vacca,/ falciamo e non sappiamo nulla dell’inverno,/ beviamo mosto e non sappiamo nulla,/ presto saremo dimenticati/ e i versi svaniranno come neve davanti alla casa».

Passioni liriche

E tuttavia questa continua e ostinata evocazione dei temi funerei rappresenta, per Bernhard, anche la modalità migliore per gestire, almeno nella finzione lirica, la morte stessa. Del resto l’esordio della passione lirica di Bernhard è scandito proprio da eventi luttuosi: la perdita del nonno, della madre, la sua malattia polmonare, quasi letale. In questo senso il ritmo della poesia rappresenta proprio il respiro che – come sappiamo dal volume autobiografico Il respiro – permise a Bernhard di decidere di vivere, e di rimandare l’appuntamento con la morte, di andarle incontro invece di farsi cogliere da essa: «Non avevo voluto smettere di respirare come l’altro davanti a me, avevo voluto continuare a respirare e continuare a vivere». Il respiro di Bernhard, faticosamente difeso e conquistato, restituisce il ritmo di questi versi di Sotto il ferro della luna, una raccolta da considerarsi tra i vertici della poesia austriaca del Novecento.