Chi verrà scelto per guidare il governo che nessuno voleva e tutti voteranno non è dato saperlo. Giuliano Amato è in pole position e il posto gli spetta di diritto. È l’uomo chiamato «Sipario». Quando non c’è più tempo neppure per l’ultimissima replica chiamano lui a chiudere i battenti e occuparsi delle esequie. Lo ha già fatto due volte, la terza sarà quasi routine.

Quando per la prima Repubblica giunse la mesta ora degli addii gli toccò il dubbio onore di presiederne l’ultimo esecutivo politico. Non era un novellino, si era già smazzato due sottosegretariati alla presidenza del consiglio (con Craxi) e due ministeri del Tesoro (con Goria e Andreotti). Portava in dote la sottigliezza di chi campa nella politica e di politica ma sempre con l’espressione distante di chi guarda le cose dall’alto di una cattedra. Chi meglio di lui per guidare la barca nel mare reso procelloso da «mani pulite»?

Portò una sfiga che lèvati. Tempo tre mesi e il suo esecutivo era stato falcidiato dagli avvisi di garanzia. I pochissimi ministri rimasti indenni passavano il tempo a raccomandarsi e non avevano testa per faccenduole come una crisi allora senza precedenti. Amato non si perse d’animo. Governò a quattro mani: le sue e quelle del presidente della repubblica di turno, Oscar Scalfaro. In tandem buttarono giù una finanziaria da 93mila miliardi di lire che a tutt’oggi la citano a «modello» ed è rimasta insuperata. Se sarà lui l’eletto da Napolitano si tratterà di recidiva.

La missione di salvare l’economia italiana riuscì grazie a una svalutazione tosta, strada purtroppo oggi impraticabile e i risultati si vedono. Quella di resuscitare la repubblica di Bettino, nel frattempo depennato dall’agenda del dottore come un postulante qualsiasi («Ma chi sarà? Mai coperto!»), invece no. Al momento di passare le consegne al governo Ciampi, incaricato di liquidare i beni residui della repubblica defunta, invece di prodursi come facevan tutti nella fondazione di un nuovo partitino radunò i fedelissimi in un noto ristorante romano e gli fece trovare sul coperto un disegnino di Eta Beta, il suo marchio di fabbrica: «Da domani ci sarà da lavorare».

In effetti lavorò di lena per trovarsi un posto adeguato al ruolo, quello di presidente dell’Antitrust, piovutogli graziosamente addosso nel ’94. Oneri, onori e una pensione d’oro: si vocifera a tutt’oggi la cifra tonda di 31mila euro. Lo squisito smentisce: «Solo 11mila, al netto delle trattenute, più i 5mila da parlamentare». Una miseria. Prebenda tanto esigua da permettergli di scagliare periodicamente fulmini contro la spesa pubblica resa esorbitante proprio dalle pensioni.

Quando, all’alba del nuovo millennio, arrivò il fatal momento anche per il centrosinistra, che per quasi un decennio aveva governato o indirettamente guidato il Paese, a qualcuno tornò in mente il sapiente. Non ce n’era di uguali per dare a un centrosinistra raso al suolo prima dagli intrighi e poi dai bombardieri di D’Alema la mano di vernice necessaria per evitare almeno lo sfacelo totale. I titoli e il sapere in effetti contano. La faccia di circostanza e un talento naturale per cadere sempre in piedi anche di più.

Secondo turno a palazzo Chigi, secondo funerale solenne, stavolta per l’effimera epoca diessina. Fortunatamente nessuna manovra succhiasangue. Ci aveva già pensato Prodi in nome dell’Europa.
Finite le esequie, sembrava passato anche il lungo momento del dottor sottile. Mica vero. Nel 2006 era di nuovo in pista, ministro degli Interni del governo Prodi: 20 mesi di navigazione a vista, poi il tracollo. Giusto il tempo di finire indirettamente coinvolto nella storiaccia di un mobbing durissimo nel ministero diretto da lui (e poi da Maroni) finito con la morte della perseguitata. Sentenza di condanna a carico del Viminale n.16654/2012, risarcimento di 91mila euro, sei mesi di pensione del magnifico stando alle cifre da lui convalidate, tre ove avessero invece ragione le linguacce.

Amato è il timoniere perfetto per un governo che, nonostante la frusta di re Giorgio, metterà la parola fine all’agonia della seconda Repubblica. Però non ci si lamenti se, quando il primo cittadino insiste sul suo nome, gli agonizzanti si acconciano sì a obbedire come gli toccherà fare finché morte della legislatura non sopravvenga, però si toccano e sporgono in fuori come per caso indice e mignolo.