Li ricordiamo bene quei prodigiosi anni ottanta in cui esplose il genio di Pina Bausch. Era appena trascorsa la dolorosa elegia di Café Muller: sulla scena invasa da un mare di sedie che qualcuno si affannava a tirar via per consentire i passi degli interpreti, un piccolo gruppo di danzatori inseguiva la musica di Henry Purcell, mentre una coppia cercava reiteratamente di stringersi in un abbraccio che non era più possibile replicare, restava solo la struggente memoria del suo gesto. Ed ecco che in pochi mesi, da un palcoscenico veneziano, la maestra di Solingen ci riversava addosso una serie di emozionanti capolavori. Come dimenticare l’uscita dal teatro con lo sgomento lasciato dalla favola crudele di Blaubart o di Auf dem Gebirge. Con la lezione sentimentale appresa fra le pareti di Kontakthof. Con l’eccitazione febbrile che trasmetteva la festa di 1980. Una vera e propria geografia dei sentimenti, quella disegnata da Pina Bausch. Una mappa implacabile del sentire umano, col suo inestricabile groviglio di violenza e tenerezza, di solitudine e ricerca di incontri, col suo inesausto bisogno di seduzione e di fuga.

Pippo Delbono

LI RICORDA bene anche Pippo Delbono quegli anni. A metà del decennio ottanta l’artista ligure stava preparando, insieme a Pepe Robledo, il primo spettacolo, Il tempo degli assassini. Qualcuno gli aveva parlato delle sorprendenti immagini di quegli spettacoli veneziani e così decisero di partire per Wuppertal, dove l’ensemble del Tanztheater era impegnato nelle repliche di Arien, uno spettacolo di qualche anno prima di cui resta nella memoria dello spettatore l’acqua che copriva il palcoscenico, un acquitrino in cui i danzatori si muovevano con qualche affanno. Ci rimase per tre mesi per partecipare alle prove di Ahnen, immergendosi nel vivo di un processo creativo che in quegli anni andava consolidando una propria specifica modalità. Di quel momento resta una straordinaria testimonianza, il film che monta «frammenti di prove» dello spettacolo, Die Klage der Kaiserin. Resterà l’unico film di Pina Bausch. Io sono un rubatore di anime, mi ha detto una volta Delbono. Cosa ha rubato a Pina, gli chiedo ora.
«Pina mi ha aperto la strada alla comprensione che il teatro può essere un luogo di grande libertà. Dove tutto è possibile, tutto può succedere. Soppressa la rappresentazione, il teatro diventa esperienza di vita. Può essere anche la trasmissione di una grande anarchia». Grande libertà ma anche anarchia è in effetti una delle sensazioni che si percepiscono nitidamente guardando il film. La sala prova del Tanztheater ci appare in una caotica confusione. E del resto anche i danzatori sembra che non sappiano bene cosa fare. Qualcuno prova un passo mentre altri guardano, o prendono appunti su un quadernetto. Eppure c’è evidentemente del metodo in quel restare in attesa che qualcosa accada, in quelle poche parole dell’artefice che interrogano o accennano ma non spiegano mai un’azione. Che ricordi conservi di quel periodo vissuto a fianco di Pina? «Il suo sguardo attento. Pina scriveva tutto quello che vedeva ma poi non dava mai giudizi. Se le era piaciuto o no. Come lo sguardo di un bambino incuriosito di tutto quello che gli capita intorno. E questo mi dava una sensazione molto forte, questo sentire di non essere giudicati per le cose che si proponevano. E poi molte cose che lì per lì non sembravano convincenti, spesso trovavano una collocazione all’interno dello spettacolo».

IL DOLORE passerà, e poi verrà la gioia – dici in uno dei momenti più belli del tuo ultimo lavoro, La gioia. Più di altri, Pina Bausch è stata capace di gridarlo gioiosamente, il dolore, con la leggerezza dei suoi attori. Vestiti leggeri e tacchi alti. Assoli struggenti costruiti movendo quasi solo le braccia, in un muto linguaggio gestuale. Esili gag capaci di dare il via a trascinanti azioni collettive. È forse arbitrario trovare lì il filo che vi unisce? «Non dimentico che in quel momento Pina viveva un dolore molto forte. Poi il dolore può diventare gioia. Le cose sempre si trasformano, viviamo un processo di trasformazione continuo. Tutto dipende dalla nostra mente. È l’insegnamento che ci viene dal buddhismo. Non esiste una cosa che in sé sia bella o brutta, tutto può cambiare aspetto».

QUANDO lasciò Wuppertal, ricorda Delbono, Pina gli disse che era un creatore e dunque doveva portare avanti la sua creazione. Con la libertà che lì aveva sperimentato. Andando anche per una strada diversa. Dunque non soltanto un metodo compositivo. Ciò che ha appreso è soprattutto la libertà di un teatro senza un progetto predefinito; senza una storia o un personaggio con cui identificarsi; senza un messaggio da trasmettere. Esperienza di vita appunto.