William è il primo a saperlo, quella domenica di novembre. Classe 1922, operaio, figura mitica della Resistenza bolognese. Lino “William” Michelini capisce dove Occhetto sta andando a parare. Lo capisce prima ancora che il segretario finisca la frase: «D’accordo, verrò alla Bolognina a salutare i compagni. Ma se dico…? Se annuncio… che ne pensi, William?». William annuisce. Il dado è tratto. Due Alfa blindate scortate come sempre dalla polizia lasciano il Cavallino rosso, dove, finito di pranzare, Occhetto e William hanno appena deciso di andare all’incontro dei partigiani riuniti in una sala comunale in via Tibaldi nel quartiere della Bolognina. In testa l’auto guidata da Mario con alcuni compagni bolognesi, dietro la seconda macchina, guidata da Giancarlo, con Achille, la sua compagna Aureliana e William. Non per una “iniziativa di massa”. È una riunione di partigiani nel 45mo anniversario della gloriosa battaglia di Porta Lame, un capitolo fondamentale nella storia della liberazione di Bologna.

Con Mario Giachini torniamo a quei giorni. Lui, allora neppure trentenne, e Mario Farini, da tutti chiamato Giancarlo, erano i due compagni della vigilanza chiamati a vegliare sulla sicurezza del segretario generale del Pci. Compagni superfidati. E di fatto suoi confidenti, molto legati a lui personalmente.

«Quella domenica – ricorda Mario – doveva essere una giornata di svago per Occhetto, nessun impegno in agenda. L’invito di William gli arriva inaspettato, ma Occhetto lo coglie al balzo. Alla riunione alla Bolognina c’erano un cronista dell’Ansa e Walter Dondi, il corrispondente bolognese dell’Unità. Dondi gli fa quella domanda sul possibile cambiamento del nome e la risposta di Occhetto – quel “lasciano presagire tutto” – riportata il giorno dopo dal giornale del partito, fa venir giù Dominiddio. Quando mi viene chiesto quale fu la reazione mia e di Giancarlo, ricordo che naturalmente capimmo al volo quel che stava annunciando Occhetto. Giancarlo veniva da una cultura ingraiana, mi chiesi in quel momento cosa stesse pensando. Ma per lui come per me prevaleva su tutto il legame con Occhetto. Con il segretario del partito».

Già nei giorni immediatamente seguenti, il clima dentro Botteghe oscure cambia, una grande tensione regna nel palazzo, che andrà via via crescendo. La mitica vigilanza tiene bene, e non è un dettaglio in un partito ben organizzato e strutturato, improvvisamente messo alla prova da uno scontro interno senza precedenti, mentre per la prima volta una manifestazione di militanti ostili alla svolta si raduna intorno al bottegone quando si riunisce la prima direzione dopo la svolta: «Un fatto scioccante», ricorda Mario.

Giancarlo e Mario non erano solo i suoi compagni fedelissimi, ma anche “termometri” affidabili di quel che ribolliva nelle profondità del Pci.

«Un giorno, qualche tempo prima della svolta, mentre lo riportavamo a casa, a piazza Campitelli, Occhetto fa fermare la macchina. “Ma tu non hai nessun dubbio?”, mi chiede. Gli dico: “No, non ho dubbi, non ho neppure trent’anni, posso avere dubbi su una prospettiva così? Io non ho un rapporto col Pci come può averlo uno che ha trent’anni più di me. Lo vedo come un momento di discussione, finalmente si discute. E poi si apre un congresso, ognuno di noi potrà dire quel che pensa. Ci stai chiedendo il permesso di poter fare questa operazione? Nessuna remora”. “Tu sei matto”, mi fa Occhetto. Io mi giro: “Ah , e il matto, so io?”».
C’erano naturalmente anche segnali di forte disagio in giro mentre s’intensificavano le voci di una possibile svolta radicale. C’erano compagni dubbiosi, inquieti. In Piemonte, il responsabile della vigilanza era Palmiro Gonzato.

«Figura straordinaria, ex-partigiano, un compagno meraviglioso, e lui qualche problemino di accettazione e condivisione l’aveva, l’aveva posto. Occhetto mi dice un giorno: “Andiamo a Torino, non dirlo però a nessuno, organizza un incontro con Palmiro. Digli che devi andarci”. Lo chiamo, gli dico, “Guarda vengo su a Torino per una cosa. Vieni a prendermi da solo”. Quando vede Occhetto sbianca. Dice: “Io non ho avvertito nessuno, né la scorta né la polizia”. Non ce n’era bisogno. Andiamo in una trattoria, un tempo dopolavoro dei ferrovieri socialisti, e Occhetto ha un colloquio con lui. Due ore cercando di convincerlo. Della giustezza della cosa. Sei segretario generale e hai tempo da perdere con un vecchio partigiano? Sì, ci volle parlare direttamente lui, senza la mediazione di nessuno».

Anche chi non era d’accordo con lui, non smetteva per questo di avere il rispetto e la considerazione che si devono al segretario del partito.

«Avevamo la direttiva precisa che quando il segretario lasciava il palazzo di Botteghe oscure, l’auto non poteva uscire per nessun motivo con una persona sola, dovevamo essere almeno due, con la scorta. Un giorno Occhetto scende dal secondo piano, senza preavviso. Chi lavorava con me quel giorno, non ricordo chi, non c’era, il segretario doveva andare urgentemente alla camera, allora chiamai – era lì, a qualche metro – l’autista di Ingrao, Renato. Gli dissi: “Renato vieni con me. Non posso uscire da solo”. Renato Pucciarone, un compagno meraviglioso, rimane un po’ interdetto, proprio me? Renato mi segue stranito e anche Occhetto, quando lo vede – lo conosceva bene – è perplesso. Quando saliamo in macchina per uscire dal garage, Renato si gira e guarda Occhetto e gli dice: “Ti odierò per tutta la vita per quello che stai facendo, però finché sei il segretario io sono a disposizione”. Questa era la vigilanza del Pci. Quando mai uno si sarebbe potuto permettere di rivolgersi al segretario in quel modo? Renato quella mattina diede sfogo al ribollire delle viscere che ormai ci avrebbe portato al superamento del Pci, e però al tempo stesso ebbe anche la lucidità di dirgli che finché era il segretario gli riconosceva il ruolo di segretario».

Il vissuto di Mario di quei tempi tumultuosi e appassionanti è pieno di episodi e aneddoti. Su tutti, alla distanza, spiccano i ricordi di un legame particolare con un dirigente comunista fuori del comune come era Occhetto. Mario era segretario del Pci nella sua Cesano, un centinaio d’iscritti, quasi tutti per la svolta.

«Un giorno tiro fuori la tessera e gli faccio: “Vedi tu e io siamo uguali, anch’io sono segretario del Pci”. “Già, mi fa lui, ma io sono generale. Segretario generale”».

Riemergono anche i momenti più drammatici del passaggio segnato dalla svolta. Come quel giorno nella casa di campagna in Maremma. «Ti rendi conto che si sta decidendo la vita di milioni di persone? Era affranto».

I ricordi emotivi non fanno velo sul ragionamento politico. La svolta, per quanto inaspettata secondo la vulgata, in realtà non lo era affatto da tempo.

«Soltanto chi non è in buona fede può immaginare che fu improvvisa. Era l’esito di un dibattito decennale, che andava avanti dai tempi di Berlinguer».

L’accelerazione finale ha diversi momenti intermedi prima della svolta. Tra tutti Tien An men. Mario ricorda bene anche un altro momento critico, la commemorazione di Imre Nagy a Budapest «dove io e Fassino portammo la corona come i due corazzieri, precedendo il segretario». Fu allora che Occhetto si rese conto che ogni tentativo generoso di riforma di quei sistemi da parte di Gorbaciov era ormai una partita definitivamente persa.

«Lo si capiva perfino dai dettagli. Nella foresteria del Posu, il partito al potere in Ungheria, la delegazione del Pci arriva tardi, stanca, dall’Italia, dove Occhetto è reduce da un comizio elettorale. Ad accoglierci panini immangiabili e coca cola senza gas. Tutto era già in disarmo».