Il 2021 sarà l’anno del crocevia tra degrado o rinascita, per un grande paese come gli Usa – con le immagini sconvolgenti dell’assalto insurrezionale al Parlamento dei sovversivi pro-Trump – e per un paese più piccolo come l’Italia, dove mostra un suo grado di scelleratezza la diatriba in corso sul rimpasto. Da noi una cosa è certa: grazie al rivoluzionario Next Generation Eu l’Italia si troverà a disporre di una quantità enorme di risorse in tempi rapidissimi se il suo Recovery Plan sarà all’altezza della sfida e, pertanto, chiunque sarà al governo, se dice meno incentivi e più investimenti, dovrà essere conseguente.

Non possiamo rassegnarci a pensare che il riscatto del Mezzogiorno avvenga con la fiscalità di vantaggio o che la creazione di lavoro aggiuntivo sia affidata alla riduzione del costo del lavoro (entrambe misure che costano moltissimo a fronte di risultati nulli in termini di addizionalità). Né possiamo non deplorare che – in alcune bozze del Recovery Plan – circa la metà dei 48 miliardi di euro dedicati alla digitalizzazione fossero veicolati attraverso una riedizione della vecchia legge Sabatini o che ben 5 miliardi venissero destinati a una Cashless Society per la ripetizione delle lotterie di dicembre. La “progettualità” e la “strumentazione” concreta con cui sostenere la finalizzazione del Recovery Plan alla costruzione di un “nuovo modello di sviluppo” basato sulla “piena e buona occupazione” rimangono questioni apertissime e urgenti (ben più di improbabili iniziative sulla monetizzazione del debito).

La prima cosa da fare è adottare una visione non assistenzialistica (cioè non di mera compensazione monetaria ex post) del ruolo dello Stato e della pubblica amministrazione, ma diversa dagli approcci tradizionali che tendono ad essere riproposti per esempio da Giavazzi, Tabellini, Boeri e anche dal Group of Thirty (presieduto da Mario Draghi e Raghuram Rajan). Oggi, infatti, come mostra proprio il caso degli Usa in cui Biden è stato eletto presidente con un programma di radicalismo interventista sui generis, appaiono inadeguati non solo gli approcci neoliberisti smaccatamente ostili allo Stato, ma anche quelli main stream coincidenti con l’idea che lo Stato debba a limitarsi a fornire al mondo produttivo attività regolatoria e incentivi indiretti o con la convinzione secondo cui di politica pubblica (come quella industriale) si può parlare unicamente in termini di regole della concorrenza (antitrust, privatizzazioni, difesa dei diritti proprietari ecc.) o di finanziamento delle infrastrutture di base. Quindi secondo tali approcci, a cui appartiene la tesi per cui il ruolo dello Stato dovrebbe essere di fornire “spinte gentili” (nudges), lo Stato dovrebbe fare cose importanti ma limitate, come finanziare la ricerca di base o sostenere gli investimenti infrastrutturali.

Ma uno dei difetti maggiori di tali teorie è che da una parte immaginano interventi pubblici “circoscritti” e “occasionali” (come circoscritti e occasionali sarebbero i fallimenti del mercato) mentre essi nella realtà sono “pervasivi” e “strutturali”, dall’altra parte ignorano un elemento fondamentale della storia delle innovazioni: in molti casi decisivi il governo non ha soltanto dato “spintarelle” o fornito “regolazione”, ha funzionato come “motore primo” delle innovazioni più radicali e della creazione di lavoro. Nell’avvicendarsi di tutti i grandi cicli tecnologici – oggi con le tecnologie verdi, farmacologiche e sociali per l’avvio di un “nuovo modello di sviluppo” – l’intervento dello Stato si è rivelato e si rivela decisivo, non solo “facilitatore” e alimentatore di condizioni permissive, ma creatore diretto, motore e traino dello sviluppo. Questo è, del resto, l’impianto che sorregge il Next Generation Eu, che non a caso ha il suo baricentro negli investimenti pubblici.

Al contrario, gli approcci tradizionali si fondano sull’idea che, quando si tratti di mercati perfettamente concorrenziali, questi bastino a se stessi. Invece ci sono molte situazioni in cui semplicemente i mercati non possono soccorrerci. E ciò è ancora più vero quando – come nei tempi presenti segnati dalla tragedia del coronavirus e dal dilagare di populismi anti-sistema fino alle aberrazioni del trumpismo – la strutturalità della crisi fa avanzare l’esigenza di un’analoga strutturalità nel ridisegno della composizione della produzione e del modello di sviluppo, quando cioè le economie vanno rimodellate dalle fondamenta: il mercato non può domandare prodotti che nessuno sa se siano possibili e, d’altro canto, non si può assistere inerti al manifestarsi delle implicazioni – alcune distruttive, altre molto positive – del sovvertimento del mondo in atto. Dunque, la pandemia ha reso ineludibile anche per il Recovery Plan l’intreccio “ruolo dello Stato/nuovo modello di sviluppo/rilancio della problematica del lavoro”.