C’era una volta un Paese che guardava avanti. Forse camminava un po’ a tentoni, ma almeno guardava avanti. Nel 1988 un manipolo di governi decise di istituire a Ginevra un Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (l’ormai noto Ipcc); era composto da un team interdisciplinare di scienziati incaricati di rispondere a una domanda all’epoca esoterica. Questa: è mai possibile che le attività dell’uomo influenzino il clima a un punto tale da provocare un riscaldamento planetario? Tra quei pochi governi c’era quello italiano: un suo diplomatico partecipò alla «costituente» e s’impegnò a finanziare l’Ipcc a nome dell’Italia.

Mai soldi furono meglio spesi. Due anni dopo, nel 1990, uscì il primo sudato Rapporto degli scienziati. Pur con tanti forse, gli scienziati suonavano un campanello d’allarme: «Le emissioni dovute ad attività umane stanno sostanzialmente accrescendo la concentrazione atmosferica di gas a effetto serra. Questi aumenti rafforzeranno l’effetto serra provocando un aumento della temperatura». Quindi gli scienziati esortavano ad assicurarsi contro questo rischio, come farebbe un buon padre di famiglia, e comunque – aggiungevano – ridurre le emissioni conviene sia all’economia che all’ambiente.

C’era una volta un governo che guardava avanti: il 1° luglio 1990 il nostro Paese assunse la presidenza di turno della Ue. Due italiani – Ripa di Meana a Bruxelles quale Commissario all’Ambiente e Giorgio Ruffolo quale Ministro a Roma – guidarono l’Europa verso un obiettivo ambizioso: impegnare tutti i Paesi membri alla stabilizzazione delle emissioni di CO2 entro il 2000 ai livelli del 1990. Istituti di ricerca tra i migliori del continente furono chiamati a dare una mano per calcolare le rispettive quote nazionali di riduzione, ma il «motore di ricerca» rimase nelle mani dei due italiani.

Ruffolo, che presiedeva il Consiglio Europeo dell’Ambiente, andò a stanare nelle rispettive capitali i colleghi più scettici, che erano allora lo spagnolo, il britannico e il greco. Il 29 ottobre 1990, al Consiglio Ambiente-Energia prolungatosi fino a notte fonda, la presidenza compì il miracolo: l’impegno comunitario era stato approvato. Tuttora la base temporale di calcolo per l’abbattimento delle emissioni resta quello promosso nel 1990. Quota 90.

Pochi giorni dopo si aprì a Ginevra la prima conferenza mondiale sul clima. A presiederla c’era anche un terzo italiano, o meglio uno svizzero italiano: Flavio Cotti, allora presidente della Confederazione elvetica.

Stavolta i Paesi refrattari erano ben più numerosi, e guidati da potenze del calibro degli Stati uniti, Russia, Cina e Arabia Saudita (per conto dei produttori di petrolio). Il trio Cotti/Ruffolo/Ripa di Meana lavorò di fino per far approvare dalle 137 delegazioni presenti una Dichiarazione ministeriale, che riconoscesse i cambi climatici come una «preoccupazione comune dell’umanità» e lanciasse il negoziato per una Convenzione mondiale a tutela del clima. Si ripeté il miracolo e i tre italiani si presero gran parte del merito. All’affollata conferenza-stampa finale erano sul podio solo loro tre, tanto che un giornalista americano chiese conto di quella «mafia» (ma era solo un’allegra battuta di spirito).

C’era una volta un governo che guardava avanti: nel 1991 l’Ocse dedicò una Conferenza ministeriale al tema delle fiscalità ecologica. I 25 ministri riuniti a Parigi furono concordi nell’eleggere alla presidenza Giorgio Ruffolo. Fu l’occasione per l’Italia di lanciare lo spinoso dibattito sulla «carbon tax«, in vista del Vertice della Terra programmato per l’anno dopo a Rio de Janeiro. Che infatti ospitò il maggior assembramento di capi di Stato e di governo mai visto (da George Bush a Fidel Castro, dal re di Svezia agli emiri del Golfo, da Mitterrand a quaranta capi africani), per decidere come armonizzare gli imperativi di sviluppo con la tutela dell’ambiente globale. Chi vi partecipò serba memoria dell’infocato dibattito che divideva i Paesi agiati dagli altri: come reperire nuove risorse finanziarie per garantire al Terzo Mondo una crescita sostenibile?

L’Italia colse l’occasione per proporre una formula avveniristica: introdurre nei 25 Paesi più industrializzati (area Ocse) una tassa energia/Co2 il cui gettito sarebbe stato ripartito in tre lotti: uno per ridurre altre tasse in casa nostra, un altro per investire nelle energie rinnovabili, un ultimo lotto per finanziare il trasferimento di tecnologie ambientali ai Paesi in via di sviluppo.

Con un terzo di quel modesto tributo riscosso nell’area Ocse si sarebbe risolto il busillis che assillava il Vertice. I grandi della Terra applaudirono la proposta del ministro Ruffolo; un prestigioso quotidiano inglese la definì una delle poche idee concrete emerse a Rio. Al Gore, prima di insediarsi alla vice-presidenza degli Usa, venne apposta in Europa per studiare le nostre proposte di «carbon tax» (che i petrolieri texani costrinsero ad archiviare al suo ritorno in patria).

C’era una volta un governo che guardava avanti, ma c’era una Confindustria che guardava indietro. Il Vertice di Rio aveva risvegliato il mondo imprenditoriale più avanzato. Un magnate canadese, Maurice Strong, raccogliendo l’eredità del Club di Roma promosse il Business Council for Sustainable Development, un’associazione di grandi industrie disposte a seguire la via dell’eco-efficienza in un’economia di mercato. Un loro libro che fece epoca («Changing Course») sosteneva che «in un sistema di mercati aperti i prezzi devono riflettere anche i costi ambientali» ed asseriva che l’eco-fiscalità comporta «almeno due vantaggi»: primo, riduce i costi aziendali di adeguamento alla normativa ambientale; secondo, incoraggia l’innovazione tecnologica. In appendice si narravano 38 storie aziendali di successo in termini di eco-efficienza (una sola italiana).

Mentre l’Ue discuteva invano sulla famosa tassa energia/Co2, Paesi come la Germania, l’Olanda e i Paesi scandinavi adottavano coraggiose riforme eco-fiscali e allo stesso tempo conquistavano (per coincidenza?) ingenti fette del nuovo mercato delle tecnologie pulite. Nel 1993 quel settore valeva circa 200 miliardi di dollari, la Germania da sola ne aveva conquistato un quinto. Fu allora che col nuovo ministro dell’Ambiente, Valdo Spini, decidemmo di organizzare a Fiesole un confronto tra la Confindustria tedesca e quella italiana. Gli imprenditori tedeschi sbarcarono in forze, guidati dallo stesso Ministro Toepfer; i nostri confindustriali inviarono da Roma una sparuta rappresentanza di funzionari digiuni di business ambientale. Con questa indifferenza il settore privato italiana si preparava al Protocollo di Kyoto.

Da quegli anni ormai lontani in poi, la solfa è stata la stessa: nei periodi di bassa congiuntura il salto di qualità non si può fare perché «si deprime l’economia già stagnante»; nei periodi di alta congiuntura la formica diventa cicala e si mette a cantare «scurdàmmoce o’ passato».

Nel frattempo il governo tedesco predisponeva un ambizioso Programma Integrato Energia-Clima (il Programma di Meseberg, 2007) e la Francia lanciava il piano di riforme noto sotto il nome di «Grenelle de l’Environnement» (2008). Spagna e Danimarca erano diventate leader dell’energia eolica. I rapporti dell’Onu calcolano in milioni i posti di lavoro creati nel settore delle energie rinnovabili. L’Europa avanzata raccoglieva la sfida ambientale come un’opportunità, non come un peso. Invece l’Italia, che forse non ama esser troppo europea, rischiava di perder l’occasione d’oro di saltare a gamba tesa dalla seconda alla terza era industriale, grazie e non malgrado la crisi economica in corso.

C’era una volta un Paese che guardava avanti. Forse camminava un po’ a tentoni, ma almeno guardava avanti. In seguito si sono succeduti governi che, forse per ascoltare la Confindustria, guardavano soltanto indietro e incitavano il Paese a camminare all’indietro. E ora, come intende muoversi il Paese dopo l’appuntamento parigino?