La storia degli Academy Awards è ricca di musical di successo: a partire da Broadway Melody (1929), il primo lungometraggio sonoro a vincere un Oscar di miglior film, e da West Side Story di Robert Wise (quello che ha vinto più statuette: 10 su 11 nomination, nel 1961), passando per classici assoluti come Un americano a Parigi (miglior film del 1951), Gigi (del 1958), The Sound of Music (del 1965) o My Fair Lady. Il fatto che il musical si presti intrinsecamente a produzioni complesse e a budget alti fa sì che siano musical anche alcuni dei maggiori disastri finanziari mai atterrati sugli schermi Usa. Si deve in parte a flop come Hello Dolly, Doctor Doolittle e il temibile La ballata della città senza nome (con Jean Seberg, Lee Marvin e Clint Eastwood, scritto da Paddy Chayefsky; sullo sfondo della febbre dell’oro!) la crisi degli studios che rese possibile la Nuova Hollywood.

 
Tra i ranghi di quella generazione di registi cinefili che, a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, reinventarono le regole del cinema americano, il western rimane il genere di riferimento. È però dal musical – e dal musical originale, come La La Land di Chazelle- che sono usciti alcuni dei loro film più audaci, sperimentali e grandiosi, ma anche più incompresi e sfortunati.
Tra questi, il gesto più radicale e visionario sembra, trentacinque anni dopo, Un sogno lungo un giorno, love story elettrica di Francis Coppola, ambientata in una Las Vegas lisergica (Storaro alla fotografia), sulle note di Tom Waits, e un film che il regista di Il padrino, girò interamente nei teatri di posa che aveva appena acquistato, gli Hollywood General, e dove immaginava di dar vita a una factory che combinasse, in totale autonomia, la dimensione autoriale più libera e creativa insieme al know how del grande artigianato industriale coltivato dallo studio system.

 

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Godard, Michael Powell e Gene Kelly erano alcuni degli ospiti illustri degli Zoetrope Studios, una galassia di affinità elettive di cui facevano parte anche autori come Hans Jurgen Syberberg e Wim Wenders, e attori come Teri Garr, Frederic Forrest e Harry Dean Stanton. Stranissima combinazione di stilizzato, magico, artificio e di naturalismo alla Cassavetes, questa storia di un’agente di viaggi (Garr) e di un meccanico (Forrest) che, come in una coloratissima trance, a cavallo tra realtà e fantasia, fuggono il tran tran di coppia con un cameriere/pianista (Raoul Julia) e un’acrobata da circo (Nastassia Kinski) è uno dei film più personali e trasparenti di Coppola.

 
La grandiosità, la solitudine, il senso del rimpianto e del tempo che passa, la tristezza profonda nell’imperfezione della vita, l’amore per l’arte e la tecnologia, che colorano tanto suo cinema, in Un sogno lungo un giorno si fondono in modo unico, struggente. Struggente è anche il backstage del film, la cui lavorazione fu complicata, oltre che dalla costruzione dei set, dalla scelta di usare in modo sperimentale alcune tecnologie video (tra cui una cabina di regia per montare «in diretta»), oggi banali, ma allora (1982) inedite. Dai due milioni iniziali, il budget salì a ventisei milioni dei quali quattordici messi da Coppola, che si ipotecò tutto, inclusa la casa.

 
Di fronte all’esitazione della Paramount, il regista decise di distribuire personalmente il film che, dopo una prima al Radio City Music Hall, rimase in sala solo due settimane, stroncato da una critica decisa a punire l’ardire/ardore di Coppola, i cui Zoetrope Studios vennero messi in vendita per pagare i debiti.
Decisamente in anticipo sui tempi, massacrato dalla critica e duramente punito al botteghino anche l’unico detour nel musical di Walter Hill, Strade di fuoco (1984), fiaba rock ‘n roll in chiave postmoderna – Minnelli nel gergo della comic strip, in un frullo di noir, western metropolitano e sci-fi, con soldati di ventura, bikers e «principesse» in pericolo, musiche di Ry Cooder e un cast di giovani promesse sconosciute tra cui Diane Lane e Willem Dafoe. Finanziato sulla scia del successo di 48 ore, Strade di fuoco anticipò lo scarto del linguaggio cinematografico che avrebbe segnato MTV, ed è infatti stato rivalutato con gli anni; destino che condivide con un altro musical finito fuori budget e distrutto dalla critica alla sua uscita, Popeye, di Robert Altman. Tratta da una sceneggiatura del drammaturgo/umorista Jules Feiffer, questa trasposizione della striscia fumetto di E.C. Segar, per un fervido decostruttore di generi hollywoodiani come Altman, è quasi un film classico, nella vena di musical favolistici come Il mago di Oz.

 

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Sul set di Malta, Altman ricreò infatti una sorta di micro studio, completo di una cittadina costruita dal nulla, di specifici dipartimenti per costumi, effetti speciali, musiche e coreografie… Robert Evans, che produceva per la Paramount, approvò un budget di 13 milioni di dollari, sapendo però che avrebbe richiesto molto di più. Finì infatti per costarne tra i 20 e i 25. Eppure anche Popeye fu un film precursore e non solo della stardom di Robin Williams: il suo look iper-stilizzato, con i colori primari dei costumi che staccano dallo sfondo un’influenza importante per film fumetto a venire, come Dick Tracy.