È mattina presto. Fa freddo, spifferi gelati entrano dai finestrini. Seduto di fronte a me, sui sedili di legno del tram 33, c’è un uomo imbottito. Indossa due paia di pantaloni, jeans sotto calzoni impermeabili, poi scarpe da lavoro, una giacca imbottita, un gilet catarifrangente. In testa porta una cuffia di lana che scende fin sotto le orecchie e, sopra, un casco a cui ha applicato con viti una lampadina da bicicletta che va a batteria. In grembo tiene uno zainetto semivuoto, sdrucito, rappezzato. Le mani larghe, senza guanti, hanno la pelle screpolata. Ha una grossa fede all’anulare sinistro. Il naso e la bocca sono coperti dalla mascherina igienica, si vedono solo gli occhi, scuri, segnati e che fissano attentissimi lo schermo del cellulare collegato agli auricolari. Ogni tanto qualcuno lo chiama e lui risponde sottovoce, in spagnolo.
È un uomo che sta andando al lavoro. Dall’abbigliamento si intuisce che potrebbe essere uno dei tanti che fanno consegne in bicicletta o motorino, ma ora è su un tram e ciò può voler dire due cose. O è rimasto appiedato, o sta recandosi là dove troverà il mezzo che lo porterà a schizzare a fare consegne di merce, oggetti o lettere nella grande città dove tutti hanno fretta di ottenere il prima possibile ciò che hanno ordinato e pagato.

Quest’uomo foderato di abiti, completamente assorbito dalla tabella di marcia che lo attende, ha seppellito la sua persona sotto uno strato di vestiti che lo tengono al caldo. Non sono quelli a impressionarmi di più, ma gli oggetti applicati su quegli abiti. Il giubbotto catarifrangente serve a segnalarlo al traffico quando farà buio, e quindi a proteggerlo. La lampadina attaccata in modo domestico al casco serve a lui per vedere sempre lo schermo del cellulare, ma anche le pulsantiere dei citofoni là dove la luce scarseggia.
Il suo non è un abbigliamento fornito da un datore di lavoro, non è luccicante, non è nuovo e nemmeno performante. È un insieme autarchico, assemblato con il fai da te per rendersi il lavoro più facile e il corpo meno esposto.
Dietro vi si legge un desiderio di cura, la mano affettuosa di qualcuno che vuole che lui torni a casa tutto intero ogni sera. Dietro vi si legge anche che chi lo paga, o lo sfrutta, non gli dà tutto ciò di cui avrebbe bisogno per garantirgli di tornare a casa tutto intero ogni sera. E’ lui a doversi preoccupare della sua sicurezza. Per le aziende che gli assegnano i pacchi da recapitare, lui è solo un utensile, un essere umano trasformato in funzione, la funzione della consegna veloce.

Una volta li chiamavano fattorini, poi pony express, adesso rider. La mansione ha sostituito la persona anche nel linguaggio. Usiamo l’inglese per enfatizzare e abbellire il servizio. L’essere è secondario, conta perché serve a qualcosa. Ci preme il risultato, non i viventi che lo rendono possibile. Questo uso della persona trasformata in utensile emerge in modo prepotente anche dal linguaggio promozionale. Cito da alcuni siti di delivery: «Pensiamo sempre alle esigenze della nostra clientela. Ci affidiamo alle nuove tecnologie per ordinare online». «Ormai basta un clic dal divano e la vostra cena arriva a casa». «La rapidità è il nostro punto di orgoglio. Ordina e te lo consegneremo nel giro di qualche minuto». «Trova tutto ciò che ti serve. Te lo portiamo noi».
Mai un «noi» è stato più falso e irritante. Quel «noi» che rende possibile il business ce l’ho davanti sul tram 33, un uomo che conta solo per quel che fa e non per quello che è, un uomo che, per arrivare intero a casa la sera, deve foderarsi con il poco che ha.

mariangela.mianiti@gmail.com