Si insegna nelle università – sia nei corsi umanistici che in quelli di medicina e infermieristica -, ma è sempre più praticata anche da operatori che si muovono in diversi ruoli nel mondo sanitario – in particolare, in contesti multiculturali e migratori, come nel caso di quella sua importante branca che è l’etnopsichiatria.

L’ANTROPOLOGIA medica si occupa dei problemi della salute, della malattia e dei processi di guarigione nella loro dimensione sociale e culturale. Si interessa, per esempio, degli aspetti comunicativi del rapporto medico-paziente, propone etnografie delle strutture e delle pratiche mediche, studia il ruolo di differenze e disuguaglianze nell’amministrazione delle politiche sanitarie.

Da oggi, fino a sabato 16 di giugno, a Perugia, l’Associazione italiana di antropologia medica terrà il suo secondo convegno nazionale. Non è solo un appuntamento accademico per specialisti di una oscura disciplina. Il titolo dell’incontro: Un’antropologia per capire, per agire, per impegnarsi. È una frase di Tullio Seppilli, il riconosciuto fondatore dell’antropologia medica italiana, scomparso nell’agosto dello scorso anno e a cui il convegno è dedicato.
Nato nel 1928, Seppilli aveva passato l’adolescenza in Brasile con la famiglia per sfuggire alle leggi razziali. Nel dopoguerra, tornato in Italia, era stato assistente di Ernesto De Martino, e parte di quella generazione di giovani studiosi capace di introdurre in Italia l’antropologia e le scienze sociali – in precedenza rigorosamente bandite dal fascismo. Fin dagli anni ’50 aveva insegnato proprio all’Università di Perugia, creandovi un solido Istituto di antropologia; aveva continuato a occuparsi delle sue ricerche ben oltre il pensionamento, nell’ambito della «Fondazione Angelo Celli per una cultura della salute».

AGLI INTERESSI di antropologia medica Seppilli era pervenuto per due strade diverse ma convergenti. La prima è rappresentata dagli studi sulla medicina popolare. Nella scia delle ricerche demartiniane sulla magia e sul tarantismo, aveva intrapreso indagini estensive in Umbria sui guaritori di origine contadina e sulla ideologia della «fattura»: in un’ottica che insisteva non tanto sulla persistenza di tradizioni folkloriche, bensì sulla loro capacità di trasformarsi per affrontare le nuove forme del «male» nella società moderna e nelle condizioni del capitalismo industriale. A questo filone di studi Seppilli combinava però una forte attenzione per ciò che in quegli anni si chiamava «medicina democratica»: problemi epidemiologici e di educazione sanitaria (ereditati dal padre, l’igienista Alessandro Seppilli) , col più generale obiettivo di un’assistenza sanitaria accessibile in ugual misura a ogni ceto sociale. In questa prospettiva, l’antropologia era per lui uno strumento indispensabile per studiare il rapporto della medicina con le classi popolari e subalterne – nel quadro di un marxismo gramsciano che ha sempre rappresentato il suo primario riferimento teorico.

LA FECONDA combinazione di questi due aspetti ha portato Seppilli a traghettare la tradizione italiana di studi sulle terapie magico-religiose verso una forma moderna – appunto – di antropologia medica, saldamente in contatto con i principali indirizzi internazionali. La scuola da lui fondata a Perugia si è poi diramata in numerose sedi universitarie italiane, divenendo una realtà solida e diffusa. Il convegno di questi giorni – con oltre cento comunicazioni fra sessioni plenarie e parallele – sta a dimostrarlo. I titoli delle sezioni sono anche un indice delle eredità scientifiche e politiche del lavoro di Seppilli.

Oltre a problemi generali di teoria e metodo, si discuterà di «usi sociali dell’antropologia», «cittadinanza, corpo e stato», «soggettività e violenza», «programmi di sanità pubblica», «ambiente e rischio», «salute sessuale e riproduttiva». Gli interventi proposti rimandano da un lato a ricerche di tipo empirico ed etnografico, dall’altro all’uso dell’antropologia come strumento di analisi delle politiche di gestione del corpo, del territorio, dei servizi sanitari in un contesto (italiano e globale) di disuguaglianze e di «violenza strutturale».

IL CHE CI RIPORTA al titolo generale del convegno: un’antropologia per capire, per agire, per impegnarsi. Questi tre momenti – la comprensione, la prassi sociale e l’impegno politico – non sono stati mai disgiunti nel lavoro di Tullio Seppilli. Il quale si è sempre dichiarato un intellettuale comunista. Specie negli ultimi anni, rievocava sempre più spesso le riunioni di partito degli anni ’50 o ‘60, con ironia ma anche con il rimpianto per un nesso tra conoscenza – anzi, scienza – e praxis che in seguito sarebbe stato difficile riannodare. Beninteso, fra questi livelli restava per lui una distinzione cruciale: era ben lontano dalle confusioni di certi orientamenti «critici» che vorrebbero ridurre la scienza a mera ideologia servitrice degli interessi del potere.
Ma, per quanto autonomi, i saperi dovevano sempre tornare a un uso sociale. I suoi ultimi discorsi e scritti manifestavano ad esempio una crescente preoccupazione per i sintomi di uno smantellamento del sistema sanitario pubblico in Italia, a favore di una sanità a due velocità, in sostanza per i ricchi e per i poveri. È prima di tutto su questa preoccupazione e su questo impegno che i suoi tanti allievi, di più generazioni, cercano oggi di seguirlo.