Il titolo, e il senso profondo, del lungo viaggio di Agus Morales tra i dannati della terra che scappano per sfuggire alla loro sorte lo fornisce un sessantenne di Aleppo, «capitale economica della Siria». «Io non sono rifugiato», dice al giornalista nel porto di Mitilene, sull’isola greca di Lesbo. Fino a qualche giorno prima era un imprenditore, titolare di una fabbrica di quel sapone di Aleppo che, prodotto altrove, non è mai mancato dagli scaffali dei supermercati neppure quando la «capitale economica della Siria» era ormai ridotta a un cumulo di macerie. Akram Jabri, questo il suo nome, non si percepisce come un rifugiato, non avrebbe mai pensato di diventarlo, esattamente come al rovescio, «per qualche ragione antropologica particolare», l’opinione pubblica europea non riusciva a capacitarsi di come quella fiumana di persone che si riversava alle frontiere dalla Siria fossero «come noi», con l’IPhone in tasca e le Nike ai piedi, soprattutto appartenenti allo «stesso universo simbolico» e allo «stesso sistema economico». Non come gli afghani in fuga da un conflitto così radicato da apparire endemico, né come i sudsudanesi che scappano dalla più recente delle guerre nel più giovane dei paesi.

C’È UN PUNTO NODALE che Morales, cronista dai fronti di guerra per l’agenzia di stampa spagnola Efe, giramondo umanitario con Medici senza frontiere e infine fondatore del la rivista di giornalismo narrativo 5W, coglie in questo Non siamo rifugiati (Einaudi, pp, 290, euro 19,50, con prefazione di Martin Caparros): la delocalizzazione delle guerre, a suo parere, ha comportato la costruzione di «una nuova immagine esotica di un qualcosa che era tanto familiare per l’Europa come la guerra». Questo spiega la difficoltà a riconoscere che i siriani «sono come noi» e che il fantasma allontanato continua a bussare alle nostre porte.
Il libro è il frutto di dieci anni di viaggi, da Abbottabad in Pakistan tra i vicini di casa di Osama bin Laden nel suo ultimo rifugio al campo profughi di Zaatari, in Giordania, fino alla frontiera tra Messico e Guatemala dove decine di zattere ogni giorno traghettano i disperati del Centroamerica da un lato all’altro del fiume Suchiate. È solo una della tappe di un percorso a ostacoli che si conclude, dopo un viaggio come a dorso di cavallo su un treno denominato «la Bestia», alla frontiera con il Texas, davanti al muro fatto erigere da Donald Trump e ai Minutemen, i vigilantes privati di frontiera pronti a sparare a chiunque provi a passare il confine.

Aver espunto la violenza dall’orizzonte dell’Occidente ha provocato, secondo l’autore, l’ulteriore effetto collaterale di aver abbassato la «soglia di tolleranza» nei suoi confronti. Perché una storia colpisca l’opinione pubblica è necessario che sia emblematica, singolare, non scontata o simile alle altre, proprio perché pensiamo che non ci appartiene. Siamo assuefatti persino all’ecatombe di migranti nel Mediterraneo e non c’è sciagura più tragica delle altre che riesca a smuovere più di tanto le coscienze. Viceversa, il dibattito pubblico è dominato dalla paura e da chi prova a governarla.

LA FORZA DI MORALES, che fa sua la lezione del miglior Kapuscinski, è di raccontare da vicino la vastità, e la varietà, della galassia di chi si muove per ragioni umanitarie o economiche, un popolo in marcia nei confini dei propri stati o da questi a quelli più vicini, dall’Africa verso l’Europa e dall’America del sud verso quella del nord. Un fenomeno impossibile da contenere, a meno di aggredire radicalmente le ragioni, economiche e sociali, che lo determinano. Perché, è la lezione che si ricava da questo lungo racconto che si può leggere pure come una concatenazione di reportage, allontanare la violenza pensando che non ci appartenga produce l’unico effetto di vedercela restituite in forme inedite. Senza che alcuna frontiera, o politica di chiusura, riesca a impedirlo.

Non siamo rifugiati è un libro che andrebbe letto insieme a La frontiera di Alessandro Leogrande (Feltrinelli), scomparso prematuramente pochi mesi fa. Se in Morales le coordinate geografiche sono messe in crisi dalla globalizzazione degli spostamenti di massa e dalla conseguente proliferazione di muri per fermarli (erano 16 alla caduta di quello di Berlino, oggi sono 61), Leogrande stringe l’obiettivo su quella linea immaginaria che affetta il Mediterraneo, separando simbolicamente il nord e il sud del mondo. Mostrando quanto sanguinante sia la ferita dell’Occidente.