Per illustrare la cornice ideologica del progetto industriale del governo “Industria 4.0”, descritto dal Presidente della Commissione Industria (G. Epifani, Il sole 24 ore, 5 luglio) e presentato oggi alla Camera dei Deputati, possiamo richiamare i cosìddetti «poteri ignoranti» di Paolo Leon (Castelvecchi, 2016), cioè l’evoluzione-involuzione del nostro capitalismo e l’ignoranza dei corrispondenti leader. Si potrebbe utilizzare anche la categoria della post-modernità –in contrasto alla modernità- (N. Franceschin, 2016), ma diventerebbe ancor più frustrante la rappresentazione della politica nazionale.

La politica vive di meta-racconti senza indagare cosa si nasconde dietro gli investimenti delle imprese. Siamo passati dalla green economy all’industria 4.0 senza colpo ferire. Così come gli incentivi alla green economy hanno impoverito l’industria nazionale, incapace di produrre beni e servizi legati alle tecnologie verdi, così la policy lancia progetti più o meno innovativi sulle così dette tecnologie «intelligenti»: internet delle cose, la robotica avanzata, i nuovi modelli di business e le strategie di mercato legate alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione – tecnologia che con il passare del tempo possiamo ben collocare tra i beni primari –, la Sharing economy e la circular economy.

Questi ultimi due concetti sono devastanti per il tessuto produttivo nazionale se consideriamo che l’unica capacità dello stesso è quella di importare conoscenza e, progressivamente, capital goods che non sono altro che beni strumentali (robot). L’Italia industriale ha problemi di struttura: sebbene l’innovazione tecnologica sia programmabile, questo presuppone l’esistenza delle necessarie conoscenze scientifico-tecnologico-economico: l’industria italiana semplicemente non può produrre questa conoscenza. Se guardiamo all’import-export di alta tecnologia dell’Italia rispetto a molti paesi europei – Germania -, si registra un deficit progressivo e disarmante. L’Italia incorpora tecnologia e non la produce, con dei differenziali che dovrebbero allarmare i sostenitori di Industria 4.0. Siamo diventati un paese eterodiretto dall’innovazione realizzata da altri paesi.

Quando denunciamo l’insufficiente spesa in ricerca e sviluppo delle imprese per abitante, 190 euro contro i 705 della Germania, dimentichiamo che alla specializzazione produttiva del paese non servono maggiori risorse in ricerca e sviluppo.

Perché dovrebbero farlo? La produzione italiana è così sofisticata? Solo grazie alla svalutazione della lira prima e dell’euro poi l’industria italiana ha recuperato qualche posizione, ma questa linea di politica economica riflette una produzione piegata sulla competitività di costo che poco si adatta alla competitività tecnologica. In troppi hanno dimenticato la lezione di Graziani e il libro «I conti senza l’oste». Se poi guardiamo ai brevetti in alta tecnologia l’Italia è semplicemente estranea: l’1%, contro il 9% della Germania o il 16% del Giappone. Ancor più sconcertante è l’idea del rilancio della robotica. Intendiamoci, l’Italia ha una storia sulla materia, ma questa è giustappunto storia.

Nel corso di questi anni non solo importiamo più beni strumentali di quanto riusciamo ad esportarne, ma l’andamento dei brevetti del settore anticipano come l’industria italiana si posiziona nel campo della robotica: 0,7% dei brevetti e in continuo calo, contro l’8,5% della Germania che conferma le proprie posizioni nel tempo. Persino la Cina ci ha superato (7% dei brevetti), riflettendo una politica industriale che fa impallidire quella nazionale. L’insistenza sulle TIC è imbarazzante. Nel Paese pesa solo per il 2% del Pil, contro medie europee tra il 4-5% del PIL. In altri termini, Industria 4.0 è l’iconografia dei desiderata senza nessuna coerenza con il tessuto produttivo che deve essere completamente riprogettato.

Sul punto ricordiamo al Presidente della Commissione Industria, che ben conosce il nostro declino, come queste inefficienze del nostro sistema industriale siano alla base di un processo negativo vecchio di alcuni decenni. La CGIL ha fatto un congresso proprio sulla necessità di riprogettare il Paese, ma quella proposta non ha incontrato gli interessi necessari. Da allora le cose non sono migliorate. Probabilmente siamo arrivati a un punto in cui è difficile capire se è possiamo almeno recuperare il recuperabile. La politica industriale è una cosa molto seria e non possiamo lasciarla a semplici iconografie.

Si tratta di industrializzare la ricerca e anticipare la domanda di beni e servizi, non di incorporare la tecnologia altrui. Una sfida difficilissima, ma dovremo almeno uscire dagli slogan. Diversamente la capacità di creare tanto lavoro quanto se ne perde diventa un altro meta-racconto della politica.