Jass – Ovvero quando il jazz parlava siciliano è la nuova creazione di Franco Maresco. Non un film ma uno spettacolo-concerto che verrà presentato sabato prossimo al Biondo di Palermo. Per ora un evento unico che però seppure col «si dice» scaramantico (è Maresco a usarlo) sarà probabilmente al prossimo Salone del Libro di Torino, e speriamo anche in altre città italiane. «Cosa ha caratterizzato il Novecento? Il cinema e il jazz. Se non siamo diventati proprio degli zombie nel 2017 dovremmo girare un po’» scherza lui al telefono. E il cinema e il jazz sono anche le passioni che si intrecciano da sempre nella sua ricerca di artista, un amore che lo ha spinto a raccontare musicisti grandissimi e dimenticati come nel magnifico Io sono Tony Scott.

 
Lo spunto per questo lavoro è il centenario (con un piccolo anticipo di un paio di mesi) dell’incisione di Nick La Rocca, il 26 febbraio del 1917, insieme alla Original Dixieland Jass Band di quello che diventerà il primo disco della storia del jazz. O jass? «Si dice che cambiarono le ’s’ con le ’z’ perché dei burloni sui manifesti avevan cancellato la ’j’ lasciando ’ass’ (in inglese culo, ndr). Così per decenza è diventato jazz» racconta Maresco. Vero? Falso? Poco importa perché siamo già nella leggenda. Quello che è invece inconfutabile è che La Rocca aveva origini siciliane, i suoi genitori infatti erano salpati come tanti altri migranti tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo scorso da un paesino in Sicilia, Salaparuta, destinazione New Orleans. «Avevo iniziato a lavorare sui musicisti siculo-americani prima di girare Io sono Tony Scott. Avevo visto il film di Wenders sui musicisti cubani (Buena Vista Social Club, ndr), e pensavo di fare qualcosa di simile coi jazzisti siculo-americani, ero anche riuscito a organizzare a Palermo un concerto con alcuni di loro. Tony Scott, tra l’altro l’ho conosciuto in quell’occasione».

 
E poi cosa è successo?
Ho deciso di intervistarlo, siamo stati insieme alcuni giorni, eravamo all’alba degli anni Duemila, sono andato a Roma dove lui viveva da quando aveva deciso di trasferirsi in Italia insieme alla moglie e alle figlie. Anzi in realtà la seconda figlia, Monica (l’altra si chiama Nina) è nata qui. Tony aveva vissuto a lungo in oriente, era là che aveva pensato Music for Zen Meditation che è considerato l’inizio della New Age. Poi è venuto in Sicilia, ha suonato anche al Lubitsch, il cinema che gestivo allora, e piano piano il film si è spostato interamente su di lui. Con questo spettacolo ritorno al mio progetto iniziale, che è poi il desiderio di raccontare la storia del jazz da un’altra angolazione, oggi più riconosciuta, che non toglie nulla ai neri ma comprende gli immigrati italiani in America, in particolare i siciliani. È sempre una storia di emarginati perché anche loro erano poveri, arrivavano in America sui bastimenti che trasportavano uomini e merci, gli agrumi, e in America, dove sbarcavano alla fine dell’Ottocento, erano dei discriminati. Nel 1891a New Orleans c’è stato uno dei più gravi linciaggi della storia in cui sono stati uccisi dodici siciliani. La musica era un elemento di unione molto importante per la comunità italiana. Se gli african american si riconoscevano nel blues, gli italiani portavano la tradizione bandistica, a volte i siciliani insegnavano ai neri a leggere la musica.

 
Facci un esempio.
Il primo grande direttore bianco di una band di jazz mista è stato Giorgio Vitale, che era nato in Sicilia nel 1873, e alla storia è passato come «Papa» Laine. Con lui ha suonato anche Nick La Rocca. Il primo blues trascritto su un pentagramma si deve a Antonio Maggio, che era un barbiere oltre a suonare. Uno giorno aveva sentito un nero cantare in strada e gli aveva chiesto che cosa stava cantando. L’altro gli aveva risposto: «Ho il blues». Maggio è tornato a casa e ha messo quella musica nero su bianco anche se in una linea melodica più vicina al ragtime. Così è nato I Got the Blues. La Rocca è stato il primo band leader a registrare un disco jazz, anche se la musica è un po’ rivista, tiene conto cioè dei bianchi. Fu un successo clamoroso, quasi un milione e mezzo di copie vendute. Questo repertorio li ha fatti conoscere ai grandi musicisti come Armstrong,ma anche Bix Beiderbecke,il primo trombettista bianco, un Rimbaud della tromba, rende omaggio a Nick La Rocca.

 
Torniamo allo spettacolo. Come è organizzato?
È diviso in tre blocchi, si comincia da New Orleans, poi si arriva agli anni Trenta e infine alla parte moderna, che guarda alle invenzioni dopo la Seconda guerra mondiale. In scena ci siamo io e il musicologo Stefano Zenni in veste di narratori insieme a tre musicisti, Salvatore Bonafede al piano, Gabriele Mirabassi al clarinetto, Alessandro Presti al contrabbasso e tromba e all’attore Melino Imparato che interpreta degli «intermezzi». Su uno schermo scorrono materiali d’archivio rari, fotografie, immagini d’epoca con cui interagiscono i musicisti… Questa storia è talmente vasta e meravigliosa che dall’800 continua fino a nostri giorni.

 
Quali sono per te le caratteristiche più importanti che i siciliani portano nel jazz?
Come dicevo la tradizione delle bande, la tromba e il clarinetto,e quella del belcanto. È grazie a Tony Scott che proprio il clarinetto sopravvive rinnovato nella modernità dopo la guerra. Tra i musicisti di cui parliamo c’è George Wallington – abbiamo scelto il brano Lemon Drop – che era nato a Palermo, nella zona intorno alla stazione centrale come Giacinto, e che è stato il primo pianista bianco bebop. Oppure Pete Rugolo, che è stato l’arrangiantore di Stan Kenton, ha composto anche molte colonne sonore per il cinema e per le serie tv come The Fugitive. In apertura c’è un brano di Vincent Rose, pure lui palermitano, si chiamava Vincenzo Cacioppo, quanti sanno che c’è lui dietro a un brano come Avalon? I siciliani cambiavano nome per non essere discriminati e anche perché le origini italiane erano penalizzanti. Si veniva ricondotti a Cosa nostra.

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A proposito, quanto la mafia entra in questo racconto?
La storia del jazz, anche se involontariamente, si lega all’economia mafiosa. Lo Vecchio (Frankie Laine, ndr), il cantante, era il barbiere di Al Capone,i mafiosi amavano la musica ma soprattutto controllavano i locali. Scott mi ha raccontato che era amico del capomafia di New Orleans, grazie a lui poteva suonare in giro portando anche i musicisti neri con sé. Un locale come il Copacabana era in mano ai mafiosi. Ma anche questi aspetti cerchiamo di liberarli dai luoghi comuni con cui vengono rappresentati.

 

 
Filmerai lo spettacolo?
Riprenderemo l’audio che sembra interessi per una eventuale messa in onda su Radio3. Ma non penso di farne un film. Sto invece lavorando sulla vicenda di Pino Maniaci, il giornalista di Telejato che è stato coinvolto in una indagine per tangenti. Lo conosco da tanto tempo, a difenderlo c’è Ingroia, e tra l’altro l’anno prossimo sono anche i venticinque anni dall’omicidio di Falcone e Borsellino. Sto pensando a una sorta di Belluscone 2, a un film che non è la storia di Maniaci ma è un viaggio nell’antimafia, una riflessione sull’abitudine mai finita di sbattere il mostro in prima pagina