L’hanno chiesto loro, i bambini di Bab el Tebbaneh. Hanno chiesto di portare nel loro quartiere il rap, la break dance e il canto. La città di Tripoli è una delle più povere del Libano e il quartiere di Bab el-Tebbaneh è uno dei più instabili, con il più alto tasso di abbandono scolastico e lavoro minorile, a causa delle condizioni di estrema indigenza.

In questo rione sorge il Centro Rene Moawad per i bambini lavoratori, un punto di riferimento socio-culturale e ricreativo per i ragazzi libanesi che vivono in condizioni di assoluta povertà e sono costretti a lavorare, ma anche per i bambini siriani rifugiati in Libano, ai quali non sono garantiti i diritti essenziali, come il diritto all’educazione.

«Vengo qui il pomeriggio, sto con altri ragazzi e mi aiutano con il francese», spiega Walid, tredici anni, originario di Homs ma rifugiato in Libano con la famiglia dal 2013. Dalle finestre sbarrate del Centro Rene Moawad, s’intravede il mare.

Enormi scheletri di cemento armato e di palazzi crivellati intralciano la vista. Baracche arrugginite in lamiera si alternano a officine meccaniche. Auto, van e furgoncini, aggrovigliati, strombazzano senza sosta. Discariche a cielo aperto di elettrodomestici si avvicendano a botteghe alimentari.

Strette viuzze si snodano lungo le pendici della collina mentre lungo il ciglio della strada principale, chiamata Via Siria, piccoli chioschi ambulanti vendono il caffè in termos metallici. Una base militare dell’esercito libanese controlla l’entrata della strada principale mentre numerosi checkpoint piantonano gli ingressi secondari.

Dall’inizio della guerra in Siria e il conseguente afflusso di migliaia di siriani in fuga, il quartiere è diventato un avamposto del conflitto: la parte superiore, Jabal Mohsen – la montagna di Mosè – è abitata da alawiti, molti dei quali sostengono il regime siriano ma la maggioranza degli abitanti sono musulmani sunniti, oppositori di Bashar al Assad.

La quiete è periodicamente infranta dagli scontri e dalle sparatorie tra i due gruppi. Una faida che ha radici lontane, nella guerra civile libanese (1975-1990), nei massacri della popolazione sunnita durante il periodo di occupazione siriano e nella paura dell’isolamento da parte degli abitanti, in minoranza, di Jabal Mohsen, ma che è alimentata da milizie, gruppi armati e politici dei differenti schieramenti.

In questo delicato e fragile contesto nasce il progetto Singing for peace, per favorire il dialogo e la pace tra le due comunità ed evitare che i bambini soldato si facciano la guerra.

«Quando i ragazzi entrano qui, si dimenticano chi sono e da dove arrivano. La musica è alta e si mettono insieme a ballare», racconta Muhamad Baarini, ballerino, insegnante e presidente dell’associazione One Voice Team, impegnata nella promozione della pace attraverso la musica e la danza. «Lavoriamo con i bambini ma anche con gli adulti cercando di smontare alcuni stereotipi perché il rap, come la danza non sono accettati culturalmente da alcune famiglie più conservatrici».

Il progetto Singing for peace è sostenuto da Arci Toscana che opera qui dalla fine degli anni ’90 con la Fondazione René Moawad, associazione cristiano maronita che lavora nel quartiere a maggioranza sunnita, proprio per promuovere il dialogo tra le comunità.

«Il conflitto e la guerra sono sempre al centro della narrazione quando si parla di Libano – spiega al manifesto Carla Cocilova, responsabile del settore internazionale di Arci Toscana – Singing for peace stravolge questo tipo di narrazione, rompe gli stereotipi e crea altra cultura che riportiamo in Italia dai nostri ragazzi con questo scambio».

Il progetto, infatti, ha coinvolto il gruppo italiano Assalti Frontali, protagonista di un laboratorio conclusivo di tre giorni sul rap e l’hip hop proprio nel centro dei bambini lavoratori.

Nelle due stanze colorate, una trentina di bambini sono seduti in semicerchio. A turno si avvicinano alla lavagna e iniziano a scrivere la rima, insieme a Luca Mascini, in arte Militant A. La prima ad alzarsi è Hanadi, dieci anni e un sorriso contagioso.

In arabo, intona rappando: «Mi chiamo Hanadi, mi piace il rap, canto il mio quartiere e il mio paese». C’è chi applaude, chi osserva timido, chi si prepara la strofa. Quasi tutti parlano del loro quartiere, di sentirsi esclusi, inferiori rispetto a Beirut, del desiderio di protezione, di pace e di condivisione.

«La prima cosa che ho fatto quando abbiamo iniziato il laboratorio – racconta Borhan Arja, rapper libanese ed educatore – è insegnargli a scrivere testi positivi, dove si sfoga la rabbia ma dove si costruisce comunità e non odio».

Vittima di cliché e di pregiudizi sul confessionalismo, il Libano rimane teatro di giochi regionali e non, che mantengono e animano uno stato di tensione permanente che si riflette anche sulle generazioni più giovani.

«Il rap ci ha aiutati. Possiamo dire quello che vogliamo, quello che sentiamo e pensiamo», afferma convinto Wassim uno degli adolescenti più grandi, che conclude il workshop con la sua strofa: «Quando il sole va a dormire, nelle strade sento la voce delle macchine, so che sono a casa mia e amo la mia famiglia di Bab el Tabbaneh».