La prima volta che l’ho incontrato dev’essere stato il 1970. Io ero studente a Pisa, attivo nel movimento studentesco e iscritto al Pci. Ho incontrato un maestro. Lo scienziato mosso da una straordinaria passione politica.

L’uomo della medicina sociale, della sicurezza sul lavoro, del Servizio sanitario nazionale. L’uomo che tra i primi ha acceso un faro sull’alimentazione (una cinquantina d’anni prima dell’Expo…), su una umanità divisa in affamati e obesi. Lo scienziato attivo in tutte le battaglie per la pace e il disarmo. L’uomo che ha visto per tempo la necessità non del condizionamento politico della scienza, ma dell’incontro tra etica e tecnologia, diventando uno dei maggiori interlocutori al mondo nel campo della bioetica. L’uomo che è stato tra gli antesignani dell’ecologia, tra i primi a prendere sul serio gli studi di Barry Commoner (“Il cerchio da chiudere”) e del Club di Roma (“I limiti dello sviluppo”). L’uomo che ha condiviso con il fratello Enrico un altissimo senso morale in politica, l’assillo per le degenerazioni del potere, anche a sinistra (e ci fu anche chi contestò questa priorità della “questione morale”: c’è bisogno, oggi, di interrogarsi su chi avesse visto giusto?).

L’uomo che capì la verità e la forza dei grandi movimenti di massa, a partire da quello No global ed altermondialista ( «I veri riformisti sono loro»). E mi piace ricordarlo oggi, quando la Corte europea ha condannato l’Italia per il massacro della Diaz nel 2001 a Genova: tortura.

Giovanni Berlinguer era un riformista proprio perché cercava le soluzioni partendo sempre da un punto di vista critico. Ci lascia due eredità preziosissime, due doni. La sua percezione del mondo come di un continuum. Scienza, società, economia, saperi, politica, ecologia… Niente stava chiuso nella sua scatola. Le pulci e il disarmo, un cucciolo di leopardo e le borgate di Roma, le epidemie, la salute, l’ambiente, il lavoro, il governo, le istituzioni, l’arte, il paesaggio…. Le mille facce della vita.
La sua, di vita, è stata, come la scienza migliore, curiosity driven. Era capace di pensare con straordinaria eleganza la rete dei nessi tra gli umani e la Terra, tra le idee e le cose. Osservando lui, ho capito meglio cosa intendesse Baruch Spinoza quando nella sua Ethica scrive: «L’ordine e le connessione delle cose sono identici all’ordine e la connessione delle idee».

Poi la semplicità. Era un uomo di assoluta semplicità. Del resto, grande valore e grande intelligenza si sposano bene con umanità e semplicità; mediocrità e ignoranza con arroganza e narcisismo.

In un lontano congresso di partito, un congresso investito dall’onda di piena del pensiero unico, capitò che il conformismo politico e intellettuale si presentasse ad ogni piè sospinto sotto la veste del “nuovo”. Nuovo, nuovo, nuovo… Una corazza, non c’era verso di guardarci dentro. Candidammo, come minoranza, Giovanni Berlinguer alla segreteria, su una piattaforma alternativa. In un discorso molto denso (che consiglierei di andare a rivedere) Giovanni fece ricorso all’ironia, altra sua strepitosa dote. E ricordò un episodio. Si narra che un giovane aspirante musicista consegnasse a Gioacchino Rossini il manoscritto di una sua composizione, per averne un giudizio. Giorni dopo Rossini lo riceve. -«Allora, maestro?». – «Nella tua composizione c’è del buono e del nuovo. Solo che il buono non è nuovo, e il nuovo non è buono». Piccolo apologo applicabile a diverse situazioni, anche più recenti.