La New Wave del jazz cresce ogni giorno di più. Sono musicisti al di sotto dei quarant’anni, molti sotto i trenta. Sono cresciuti ascoltando l’hip hop e, come a suo tempo fu per il rock, stanno riversando nel jazz questi ascolti, pratiche ed estetiche. Per loro il jazz non è solo una musica da ascoltare nella solitudine delle proprie camerette o salotti. Né da suonare solo nei teatri o nei festival. È una musica dell’incontro. Musica che fa ballare o semplicemente dondolare. L’estetica ambient della circolarità dove piccole cellule ritmiche e melodiche si ripetono e dove non conta solo, e non tanto, il feticcio dell’assolo ma il suono di gruppo, il senso comunitario. Per questo, incredibilmente ma non troppo, incontra volentieri l’eversivo free jazz e naturalmente le musiche africane e caraibiche. Si tratta di un movimento molto ampio che va dagli affreschi «epici» e bulimici di Kamasi Washington alle ibridazioni techno-jazz di Hieroglyphic Being con Shabaka Hutchings e dunque ha al suo interno proposte parecchio differenziate. La critica conservatrice non li ama nemmeno un po’e si chiede se non sia semplicemente «musica da discoteca».

CHI NON NUTRE pregiudizi per quella musica, come per tutto ciò che muove le «parti basse», invece la guarda con interesse. Ad accendere le discussioni sarà certamente il nuovo doppio disco Universal Beings del batterista Makaya McCraven. Disco esemplare nella sua radicalità e per il fatto di presentare quattro diverse sessioni con altrettanti organici colte nelle capitali del jazz contemporaneo: Los Angeles, Chicago, New York e Londra. McCraven propone tappeti percussivi su cui i vari musicisti costruiscono trame a volte dense e altre più rarefatte, sempre intriganti. All’opera quindici musicisti; una Internazionale di improvvisatori sopraffini: i sax di Shabaka Hutchings e di Nubya Garcia, le tastiere di Ashley Henry, il violoncello di Tomeka Reid, la chitarra elettrica di Jeff Parker.

NELL’EPISODIO newyorchese l’arpa di Brandee Younger conferisce una atmosfera eterea di grande impressione; in quella londinese prevale il groove funk e afrobeat mentre in California la chitarra free di Parker impasta con il violino di Miguel Atwood-Ferguson visioni neo-psichedeliche. È presto per dire se questa scena produrrà una svolta duratura nel jazz. Intanto godiamoci la freschezza, l’entusiasmo e la vitalità che emanano dischi come questo.