Il 2014 si è concluso con l’ultimo strappo. Qualcuno aveva finto di illudersi che, al momento di scrivere i decreti attuativi della «riforma» del mercato del lavoro, il governo ne avrebbe ridotto l’impatto distruttivo. Invece la realtà ha superato le peggiori previsioni. Se, come è certo, la sostanza resterà, in Italia tra breve il tempo indeterminato sarà un ricordo del passato, anche grazie all’estensione della nuova normativa ai licenziamenti collettivi. Tutti i lavoratori dipendenti saranno finalmente precari, merce sul libero mercato.

Rischia grosso anche il pubblico impiego, a proposito del quale il governo ha riesumato lo spettro dei «fannulloni», e dove la precarietà è da anni la regola per i nuovi assunti.

È una provocazione del Blair italiota, l’ennesima? Oppure il passo decisivo verso l’omologazione del paese alle società mercantili di tradizione anglosassone? Il tutto, però, mentre qui l’economia implode, la disoccupazione dilaga, la fiducia di imprese e consumatori frana, la deflazione incombe e vanno a picco interi settori dell’industria nazionale. Comunque sia, proviamo a leggere politicamente questo momento delicatissimo, nel segno del quale comincia il nuovo anno.

Renzi è a metà del guado. Sin qui ha fatto di testa sua, ostentando indifferenza o disprezzo verso gli interlocutori, ad eccezione di quelli dotati di maggior potere materiale (l’Europa e i mercati) o simbolico (la presidenza della Repubblica e la stampa, entrambe peraltro benevole nei suoi riguardi). Si è distinto soprattutto per il violento attacco al sindacato e – forte della maggioranza di fatto che regge il suo governo – per l’irrisione di alleati e compagni di partito non allineati.

È forse la prima volta nella storia repubblicana che un esecutivo funziona a pieno regime con il supporto esplicito di una parte dell’opposizione, con ciò vanificando il ruolo della maggioranza che gli ha permesso di insediarsi.

Una novità che si aggiunge a quante, nel segno del trasformismo organico, hanno in questi vent’anni offeso la Costituzione.

Un uomo solo al comando, come disse a suo tempo. Che, nella frenesia di incalzare e promettere e depistare sulle promesse infrante, ha aperto via via mille partite senza chiuderne alcuna. E seminato lungo la strada feriti e malcontenti. I quali non si dispererebbero certo ove un serio infortunio interrompesse prematuramente l’avventura del governo.

In questo frangente cade ora la madre di tutte le battaglie, l’elezione del nuovo capo dello Stato. Che potrebbe effettivamente cambiare il quadro in profondità. E davvero segnare un punto di non ritorno nella legislatura e nella fase politica.

A rigore, o in astratto, quella che si profila è un’opportunità. Al Pd, dalla quarta votazione, basterebbe trovare una quarantina di voti, che potrebbero facilmente convergere da sinistra su un candidato di garanzia costituzionale, attento alle domande del mondo del lavoro e dei giovani, alle ragioni della pace, della legalità e dell’ambiente. Ma si tratta, è ovvio, di un’ipotesi astratta, che semplicemente non fa i conti con la realtà. Che suppone un Renzi inesistente e un Pd immaginario. Se torniamo coi piedi per terra, dobbiamo riconoscere che la situazione non lascia per nulla tranquilli. Anzi, giustifica la più viva apprensione.

Per continuare nella sua avventura – sempre più improbabile, sempre più azzardata – Renzi ha bisogno di un presidente a proprio uso e consumo, ancor più di quanto non sia stato nel corso di quest’anno Napolitano. Per questo deve convincere i principali soggetti coinvolti nella scelta, che, al netto delle sue truppe, sono due: i forzisti fedeli a Berlusconi e il variegato insieme delle minoranze Pd. Qui tutta la faccenda assume un aspetto inquietante.

Mettere d’accordo tra loro la cosiddetta sinistra democratica e i vassalli del vecchio masaniello com’è possibile? Non dovrebbero, in linea di principio, escludersi a vicenda, come il diavolo esclude l’acqua santa?

Forse no, visto che in vent’anni la tanto decantata democrazia dell’alternanza non ha registrato serie discontinuità, almeno sui fondamentali della politica economica e istituzionale, e della guerra. Ma è vero, d’altra parte, che in questi mesi le minoranze interne del Pd hanno ripetutamente attaccato il governo, soprattutto su economia, lavoro e «riforme» costituzionali, da posizioni – stando agli atti – antitetiche a quelle della destra. E che destra berlusconiana e sinistra democratica hanno, sulla carta, concezioni inconciliabili sui diritti, la legalità, la difesa dei principi costituzionali.

E allora? Com’è che il presidente del Consiglio giura di vincere la partita senza difficoltà? Bluffa, millanta anche in questo caso? Oppure ha in mano un jolly che, al dunque, calerà?

In democrazia, pensavano i nostri padri, domande del genere nemmeno potrebbero porsi, dato che la cittadinanza governa in piena consapevolezza. Ma noi ci siamo dovuti riabituare agli arcani del potere e ai patti siglati in gran segreto.

Sappiamo di non sapere e di non potere fare previsioni. Quindi non ci resta che attendere. Non senza, tuttavia, due brevi considerazioni.

La prima è che, ancora una volta, alla sinistra Pd tocca un ruolo decisivo. Se anche il prossimo presidente dovesse porsi a presidio di larghe intese e patti segreti, su di essa ricadrebbe quest’altra enorme responsabilità, per la blindatura di un sistema di potere antisociale, vocato alla guerra contro il lavoro e il welfare e allo smantellamento della forma di governo parlamentare.

La seconda è che mai come in questo caso è importante ricordare che al peggio non c’è fine. Proprio perché c’è stato Napolitano, non è vero che ora si può soltanto migliorare. Questo presidente ha stravolto il ruolo politicizzandolo, ha arbitrato la partita giocando fino all’ultimo per una delle forze in campo, ha preteso d’imporre al paese il proprio disegno. Non soltanto esponendo, con ciò, la più alta magistratura a un inedito dileggio, ma spianando altresì la strada ad altre esiziali forzature.