I successi della nazionale maschile di calcio all’Europeo hanno risollevato l’umore di un paese logorato da lunghi mesi di pandemia e restrizioni. Per ogni paese, le competizioni sportive internazionali rappresentano un’occasione unica per guardarsi negli occhi, per vedersi “uniti” dagli atleti che lo rappresentano. Attraverso lo spettacolo sportivo, una vera industria globale fervida di contraddizioni, ci si ritrova in quella comunità immaginata che è la nazione.

Proprio per questi motivi è importante riflettere su quanto di rappresentativo ci sia nella squadra guidata da Roberto Mancini. Tra i 26 convocati  agli Europei nessuno è figlio di immigrati. Un solo giocatore ha un’origine «altra», Jorge Luiz Frello Filho, detto Jorginho, giunto in Italia a 15 anni per un provino col Verona. La cittadinanza italiana la deve al trisavolo paterno, Giacomo Frello, partito dalla provincia di Vicenza nel 1896. Jorginho è solo l’ultimo caso di oriundo chiamato a vestire la casacca azzurra, una tradizione avviata durante il Ventennio fascista e mai interrotta. Fra le federazioni sportive, la Figc è la più fedele interprete dello jus sanguinis sportivo, un baluardo di conservazione e malinteso patriottismo.

A più di quarant’anni da quando l’Italia è ufficialmente diventata un paese di immigrazione, dopo più di un secolo di grande emigrazione, viene difficile credere che non vi siano calciatori di origine immigrata degni di rappresentare il paese. Nel 1995, i bambini nati in Italia da genitori stranieri erano l’1.7 per cento della popolazione, una percentuale divenuta l’8 per cento nel 2000. Nel 2012, i figli di immigrati erano il 14.9%, ma il dato non include i figli di coloro che avevano acquisito la cittadinanza negli anni precedenti.

Questi numeri si riflettono nella partecipazione sportiva a livello giovanile, in tutti gli sport. Nell’atletica leggera, per esempio, da diversi anni i «nuovi italiani» sono ai primi posti in diverse discipline e rappresentano con successo l’Italia a livello internazionale. Nel calcio, lo sport più popolare, e il più partecipato tra i maschi, le cose sembrano andare diversamente.

Emblematica è la traiettoria di Mario Balotelli. Trattato da eroe agli Europei del 2012, il più famoso rappresentante della «seconda generazione», appena due anni dopo divenne il capro espiatorio dell’umiliante uscita dell’Italia ai mondiali del Brasile. Dopo di lui, il vuoto. Se si esclude Moise Kean, giovane talento non selezionato per gli Europei, non vi sono al momento altri giocatori di origine immigrata nel giro della nazionale maggiore. Le cose non vanno molto meglio a livello giovanile, se l’Under 21 maschile che ha partecipato agli Europei quest’anno, includeva un solo giocatore di origine immigrata, Youssef Maleh.

La tendenza è declinante rispetto a solo pochi anni fa, e forse non è un caso. Nel 2016, il vice-coordinatore delle nazionali giovanili, Maurizio Viscidi, chiuse pubblicamente la porta della nazionale a Mattia El Hilali, al tempo un diciassettenne in forza al Milan, più volte selezionato per le rappresentative giovanili. Nato in Italia da padre originario del Marocco e madre italiana, El Hilali aveva espresso la sua incertezza tra i due paesi. La regola Fifa prevede che un calciatore una volta schierato dalla nazionale maggiore in competizioni ufficiali non possa più cambiare casacca. E’ un dilemma di molti giovani calciatori di origine immigrata. Fa riflettere il fatto che l’Italia sia l’unica squadra, tra quelle dell’Europa occidentale che partecipano all’Europeo 2021, a non includere calciatori di origine immigrata.

Al tempo del caso El Hilali, Viscidi disse: «È già il quarto caso, siamo amareggiati del fatto che certi giocatori non scelgono la maglia azzurra per conti personali». Nel frattempo, Viscidi è stato promosso a coordinatore delle nazionali giovanili, ma la situazione non è migliorata. Anzi. Al momento, tra i 30 calciatori nel giro della nazionale Under 21 dell’Albania, ben 9 sono nati o cresciuti in Italia, alcuni hanno anche rappresentato questo paese con l’Under 15 o l’Under 17.

Forse è tempo per la federazione calcistica italiana di porsi delle domande, e di riflettere sui modi di gestire situazioni che non possono essere considerate episodiche.