Nelle strade di Gaza, Hamas organizza manifestazioni di giubilo per la vittoria. In Israele, 24 ore dopo l’inizio della tregua, il primo ministro Netanyahu in conferenza stampa, segnala un «colpo enorme contro Hamas e contro il terrore». I curiosi festeggiamenti di Hamas marcano la tregua di lunga durata, organizzata dall’Egitto. Si dice che sia diventata possibile, quando i leader a Gaza hanno fatto presente a Khaled Meshal, il leader politico palestinese di Hamas ora residente in Qatar, che con la prosecuzione della guerra si sarebbe rischiata la sollevazione popolare.

L’enorme tragedia prodotta dagli attacchi israeliani non può essere nascosta dietro gli appelli a festeggiare «il successo della resistenza».

È possibile che le illazioni circa una possibile sollevazione popolare a Gaza non abbiano un grande fondamento, ma è opportuno ricordare che la Striscia è oggi un’area in profonda crisi, che la guerra ha sottoposto a un bilancio tremendo: oltre duemila palestinesi morti, migliaia di feriti, 200mila senzatetto, distruzione dei servizi essenziali, acqua, elettricità, disastro sanitario; un preludio a una crisi umanitaria di grande portata.
Dove andranno tutte quelle persone nelle prossime settimane, mesi, anni, se si stima che la ricostruzione di Gaza richiederà dieci anni? Quanto al grande «trionfo» di Netanyahu, in questi giorni sta sfociando in una discussione oltremodo interessante e problematica circa il futuro di Israele. La guerra inizia di fatto quando i palestinesi danno vita a un governo di unità nazionale. Fragile, instabile, ma una vera sfida per una leadership israeliana di destra che non ha alcun interesse a una pace durevole ma deve far vedere alla comunità internazionale che sta «negoziando» la pace.

Poco tempo dopo, il sequestro e l’uccisione dei tre giovani israeliani nei territori occupati, fornisce l’occasione ideale per una furiosa e violenta campagna contro la leadership di Hamas in Cisgiordania. E le battaglie nel sud preludono all’invio dei missili di Hamas contro la popolazione israeliana e alla guerra «contro Hamas», che in realtà sfocia in attacchi criminali contro la popolazione palestinese di Gaza.
Nella prima fase della guerra, gli attacchi sono condotti essenzialmente dalla marina e dall’aviazione. Il ministro degli esteri Liberman e il leader di estrema destra Benet ritengono che sia troppo poco e chiedono un attacco di terra per sconfiggere, distruggere, sbaragliare Hamas. L’esercito spiega ai bravi ministri che questo significa sacrificare centinaia di soldati in una missione che finirebbe per rioccupare la striscia di Gaza, e che non necessariamente si concluderebbe con la sconfitta palestinese.

Quando, a pochi giorni dall’inizio dell’attacco, si scoprono i tunnel, con grande panico per la popolazione dell’area che si sente tradita dalla mancanza di azione da parte dei leader, inizia la fase dell’attacco di terra; oltre sessanta soldati israeliani muoiono durante l’offensiva, il cui unico obiettivo dichiarato è la distruzione dei tunnel. Intanto Netanyahu continua a essere troppo «moderato» agli occhi di tanti del suo partito, il Licud, e i compari Liberman e Benet architettano continuamente piani sempre più sfrenati. Le pressioni da parte degli Stati uniti e della comunità internazionale fanno la loro parte; Netanyahu e il ministro della difesa proseguono la loro guerra devastante, senza però arrivare ai piani dell’ultradestra che vorrebbe «farla finita con Hamas, distruggerlo, sbaragliarlo».

Dopo 50 giorni, con settanta morti israeliani e in assenza di evidenti segnali di disfatta, e mentre diventano di pubblico dominio i dissidi all’interno del governo, la popolarità di Netanyahu è in caduta, ma non va meglio per i suoi ministri, anzi.

La maggioranza degli israeliani ritiene che la guerra possa riprendere fra meno di un anno. Nel suo discorso, il primo ministro riepiloga la vittoria – «abbiamo colpito, ucciso, distrutto» – ma precisa anche che ora si aprono nuovi orizzonti politici.

È azzardato prevedere se la problematica coalizione governativa israeliana andrà avanti, oppure no, ma nei circoli del primo ministro c’è ottimismo, e si pensa che sia la destra del partito che pure lo critica così duramente, sia i calcoli cinici dei suoi alleati permetteranno a tutti di andare avanti. Sintetizza bene la situazione uno dei leader di un consiglio regionale del sud quando afferma: «Tutti i ministri che vengono da noi sono persone magnifiche, ma come gruppo sono un circo equestre».

La guerra ha voluto dire far uscire allo scoperto correnti che erano considerate marginali o si nascondevano: il fondamentalismo religioso e gli alleati ultranazionalisti che invocavano soluzioni fasciste o neonaziste. «Liquidare tutti i terroristi a Gaza»… e partendo da là, «gli arabi di Israele, ucciderli o espellerli», e perché no, è legittimo «uccidere o espellere i comunisti», cioè tutti quelli che pongono dilemmi etici, sono contrari alla prosecuzione della guerra e preferiscono la pace.

La maggioranza delle manifestazioni pacifiste – alcune davvero minuscole – sono state violentemente attaccate da bande organizzate dell’ultradestra. Il ministro degli esteri ha chiesto il boicottaggio dei negozi degli arabi israeliani che erano contrari all’azione militare, e la deputata Shaked del partito di Benet è arrivata all’apologia del genocidio. Fra i politici, pochi hanno osato criticare i terribili propositi della destra estrema.
Se questo può essere la base per un’ulteriore radicalizzazione dell’opinione pubblica in una direzione fascista-nazionalista, 50 giorni di guerra, un’enorme forza messa in campo, la situazione di penuria delle popolazioni israeliane del sud, tutto crea una legittimazione che durante tutta la guerra non era possibile avere: si comincia a capire che occorre una soluzione politica e che la forza non porta da nessuna parte.
Sia chiaro: così come le dichiarazioni di Netanyahu sui «due Stati» erano solo menzogne a uso internazionale e interno, l’attuale «orizzonte politico» fa parte delle brillanti parole d’ordine del premier; ma comunque segnala l’inizio di un cambiamento serio, in Israele. Dopo l’incubo di 50 giorni di guerra, accettata o approvata da una grande maggioranza, adesso l’«unità nazionale» si sta sfaldando e si torna ad ascoltare altre voci. Una parte della popolazione è diventata consapevole che l’uso della forza non porta a un futuro migliore.